Veloce come il vento

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I motori parlano emiliano Valutazione 3 stelle su cinque

di ValterChiappa


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venerdì 2 giugno 2017

“Veloce come il vento”di Matteo Rovere non è un racconto sportivo. È una storia da bar, di quelle che si potrebbero raccontare in qualche paesino del Modenese, davanti a un bicchiere di vino ed un mazzo di carte. Quelle storie dove i protagonisti sono personaggi leggendari, dove le macchine volano e ruggiscono come tigri, dove la verità si mescola alla favola e non si sa quanto sia iperbolica l’una o inventata l’altra.
Rovere, che dice di aver avuto l’ispirazione ascoltando i racconti di Tonino, un anziano meccanico, ci riporta, riscrivendola liberamente, una di quelle storie: l’incredibile vicenda di Carlo Capone, mitico pilota di rally degli anni ’80, dal talento cristallino e dal carattere indomabile. Vincitore del Campionato europeo rally nel 1984, ribelle a tutti gli ordini di scuderia, nonostante quel trionfo fu licenziato dalla Lancia, precipitando nel tunnel della droga e del disagio psichiatrico.
In “Veloce come il vento” la scena si sposta naturalmente in Emilia, terra di origine del regista romano. La famiglia Di Martino vive di pane e motori: la giovanissima Giulia (Matilda De Angelis), ancora minorenne, è una promettente campionessa, il padre, meccanico, il suo allenatore; dietro una madre che li ha abbandonati ed un fratellino introverso e perennemente serio. E poi il fratello maggiore Loris (Stefano Accorsi), detto “Ballerino”, ex pilota spericolato e dal prodigioso talento. Diventato tossicodipendente dopo la partenza della madre, vive da sbandato in una roulotte assieme alla donna.
Un giorno il padre muore per un infarto che lo coglie, come gli si addice, a bordo pista. L’officina chiude, rimane solo il vecchio e fedele Tonino. Giulia, solida ed equilibrata, si carica sulle spalle la difficile situazione. Ma deve continuare a correre: il padre si era indebitato per iscriverla al Campionato e se non vincerà dovrà lasciare la casa al crudele avversario Minotti. Un’impresa disperata. Ma quando Loris ritorna a casa per pretendere la sua parte di eredità, viene richiamato da una droga più potente di quella che si inietta nelle vene: il fumo di scarico gli entra nei polmoni, l’olio gli circola nelle vene, il rombo dei cilindri è musica nella sua testa. Comincerà a seguire la sorella, trasmettendogli la sua contagiosa follia e indicandogli quelle imprevedibili traiettorie che solo il suo infallibile occhio sa vedere, le sole linee che sono restate chiare nella sua mente obnubilata.
Vincere un campionato con un team formato da una ragazzina, un tossico ed un vecchio: davvero una storia da bar. Che si muove su un filo sottile, fra l’equilibrio e la follia, la possibile redenzione e la definitiva perdizione, fra una droga, quella chimica, e l’altra, quella di una passione totalizzante.
Film veloce come il suo titolo, sanguigno, eccessivo nelle caratterizzazioni, come forse la storia richiede. La storia ed i personaggi coinvolgono, passandosi la scena: prima domina la tenace determinazione di Giulia, poi irrompe e conquista l’irruenta sregolatezza di Loris. Accorsi, dimagrito, segnato, con i capelli lunghi e bisunti e la dentatura marcia, è favorito da un ruolo da mattatore destinato ad accattivarsi il pubblico. Ma, a nostro vedere, calca troppo la mano, gigioneggia con l’accento bolognese, riproduce un tossico troppo tossico; per diventare però irresistibile quando finalmente si mette al volante della sua vecchia Peugeot 205 T16. Impressionante per contro l’esordio della giovane Matilda De Angelis, per una presenza scenica che riempie lo schermo e una personalità che si manifesta imponente fin dalle prime scene.
“Veloce come il vento”ha poco a che vedere con “Rush” o i vari “Fast and furious”. Non ci sono la fantascientifica tecnologia dei box di Formula Uno, né il mondo dorato delle feste mondane: solo sudore, grasso dei motori, bulloni e chiavi inglesi; nessun occhio elettronico, nessun computer, solo quella voce magica che ti ordina di raddrizzare le curve, montare sui cordoli, anticipare, chiudere, dare gas. E così le scene di corsa non hanno effetti speciali o computer grafica: riprese artigianali, con le camere montate sui cofani delle macchine, ma, come queste, velocissime ed adrenaliniche per quanto vere.
Un parallelo, pur nella diversità, ci sembra invece opportuno con il contemporaneo “Jeeg Robot” di Mainetti. In entrambi infatti c’è il tentativo riuscito di rinnovare i film di genere, immergendoli nella cultura italiana. E in questa operazione è fondamentale il ruolo dei regionalismi, dalla Roma delle borgate, all’Emilia dei motori. Se la passione per i motori nasce nei vecchi cascinali trasformati in officine, tra chiavi a stella e fusti d’olio; se non beve champagne ma lambrusco; se parla una sola lingua, l’emiliano, così il nostro cinema, uscendo dai morti salotti borghesi, attingendo all’antico, prezioso crogiolo di quella cultura popolare che è la nostra più grande e forse unica ricchezza, potrà essere finalmente innovativo. E orgogliosamente italiano.

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