Due astronauti, Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalsky (George Clooney) stanno lavorando ad alcune riparazioni di una stazione orbitante, quando una pioggia di detriti li investe distruggendo il loro Shuttle e uccidendo l'equipaggio a bordo. Rimasti isolati, intraprendono una corsa in mezzo alla spazio per raggiungere un'altra stazione orbitante e riuscire a rientrare sulla Terra. Dal un punto di vista narrativo, inteso come concatenazione di eventi che permettono alla pellicola di progredire, assistiamo alla storia più vecchia del mondo; la fuga dell'uomo per trovare la salvezza. Da una prospettiva puramente espressiva siamo invece di fronte a qualcosa di mai visto prima, quella di Cuaron è infatti un'opera prettamente visiva e tecnica che si avvale di lunghissimi piani-sequenza. La macchina da presa sembra non avere controllo e gira continuamente intorno ai personaggi, su se stessa, avanti e indietro in maniera scomposta, come se fosse anch'essa in assenza di gravità, entra fin dentro i personaggi stessi (a un certo punto ci accorgiamo che siamo dentro il casco spaziale della Bullock). Forse mai lo spettatore era stato portato così al centro della scena e catapultato all'interno dello schermo e qui dobbiamo anche ringraziare la tecnologia 3D che se fino ad adesso è stata sfruttata più per scopi essenzialmente commerciali, trova in questo film una sua piena giustificazione riuscendo a risaltare in maniera quanto mai efficace l'intera struttura formale del lungometraggio.
Tutta questa estetica visiva però non è fine a se stessa, non è un gioco che tende soltanto a divertire e stupire lo spettatore, Cuaron riesce infatti ad elaborare anche dei contenuti che emergono dal piano espressivo su cui il film è stato prevalentemente pensato e sviluppato. Gravity diventa allora non solo una pellicola di effetti speciali e di strabiliante avventura fantascientifica, ma un film esistenzialista che riesce a toccare le corde più sensibili dell'animo umano che hanno a che vedere con il concetto di vita stessa. L'essere umano è al centro della vicenda, le sue debolezze, le sue difficoltà e l'innata proiezione alla vita che è insita in lui anche qualora questa non abbia più niente di convincente e di bello da offrire, proprio come per l'astronauta Stone che non riesce più a dare un senso alla propria esistenza, dopo la morte della figlioletta.
Eppure in lei c'è un'ostinata e preponderante ostinazione alla vita, è stata per troppo tempo un'anima fluttuante, vagabonda, persa e per ritrovarsi ingaggia una lotta contro se stessa e contro le forze dell'ignoto.
Il suo viaggio si trasforma allora nell'occasione per andare incontro ad una rinascita, una nuova fase embrionale (splendido omaggio a 2001 di Kubrick) da cui uscire per cominciare ad intraprendere un nuovo percorso e pensandoci bene il film sembra tutta una gestazione, tra ansie, palpitazioni, fili sottili che tengono l'astronauta attaccato alla speranza come un cordone ombelicale e un corpo umano incastrato nell'involucro della tuta dal quale non si riesce a liberare. E' un inno alla vita e quindi all'uomo, la Terra da una parte che ne rappresenta l'essenza stessa e lo spazio dall'altra che ne nasconde il mistero da cui tutto si è generato.
La gravità non è solo una forza fisica, ma anche umana che attrae l'uomo verso la vita.
Michele I.
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