IL DISCORSO DEL RE (GB/USA, 2011) diretto da TOM HOOPER. Interpretato da COLIN FIRTH – GEOFFREY RUSH – HELENA BONHAM CARTER – GUY PEARCE – TIMOTHY SPALL – MICHAEL GAMBON – DEREK JACOBI – JENNIFER EHLE – ANTHONY ANDREWS – CLAIRE BLOOM – EVE BEST – CALUM GITTINS – ROGER PARROTT – FREYA WILSON – RAMONA MARQUEZ § Dopo la morte del padre Giorgio V (1865 – 1936) e la scandalosa e obbligata abdicazione del fratello Edoardo VIII (1894 – 1972) che sposa la divorziata, borghese americana Wallis Simpson, il duca di York Albert Frederick Windsor detto Bertie sale riluttante al trono col nome di Giorgio VI (1895 – 1952). Scritto da David Seidler – che ne aveva già fatto una pièce teatrale – e diretto da un regista televisivo, ne è uscito un film premiatissimo. Spettacolare nella struttura, con ammirevole sottigliezza psicologica nel disegno dei personaggi, è un’opera complessa nei temi, svariante nei toni fra dramma e commedia, fra tenerezza e soprassalti epici, raffinata nell’apparato figurativo, recitata da attori bravissimi con un Firth straordinario. Il suo asso portante è il difficile rapporto e poi l’amicizia tra Bertie/Giorgio VI e Lionel Logue, eccentrico logopedista che lo aiuta a vincere la paura, fonte principale sin dall’infanzia della balbuzie. Per capire il film – e il punto di vista di Seidler e Hooper – conta il dialogo fra il balbettante e suo padre: “Non siamo una famiglia”, gli dice, “ma una ditta”. I Windsor sono da secoli in affari nel ramo della monarchia e intendono restarci. Perciò è indispensabile saper parlare con gli altri, col popolo.
Le interpretazioni di questo capolavoro assoluto del cinema storico contemporaneo contribuiscono ad alzare la media già di per sé elevata e struggente: Firth impersona un sovrano roso dall’indecisione e dall’incertezza, che si trascina dietro fin da bambino la soggezione verso il fratello maggiore e il timore di governare quando arriva finalmente il suo turno di ereditare lo scettro e guidare il Paese verso la seconda guerra mondiale, ma col discorso che fa nel sottofinale all’intera nazione si riscatta definitivamente e acquista un ruolo di primo piano nella conduzione del business famigliare che comprende da decenni e decenni il trattamento della dinastia monarchica; G. Rush è un dottore non laureato, appassionato di Shakespeare e pure attore mancato, che esercita la sua professione “abusivamente” fin da quando curava i soldati australiani (suo Paese natale è infatti lo stato più esteso dell’Oceania) rientrati dalla Grande Guerra, e appone i suoi metodi bislacchi ma pur sempre efficaci e utilissimi al suo insolito paziente, aiutandolo non solo a superare i balbettii ma a prendere decisamente coscienza della parte che il destino della Storia gli ha affidato, e della quale, anche grazie agli insegnamenti del medico, capirà di averne avuto il merito completo e pervasivo; H. B. Carter ci regala come sempre un’interpretazione fuori da ogni schema e ordinario, incarnando un’Elizabeth Bowes-Lyon (che morì centoduenne) affezionata al marito, che lo appoggia in tutti i suoi tentativi tutt’altro che penosi di vincere le insicurezze che lo intralcerebbero non poco nel lavoro governativo del quale è stato prudentemente investito dai casi della vita (e della Storia, che ancora una volta ricorre a collegare vite fra loro e a decidere le sorti di personaggi che si muovono in essa come pesci in un acquario che può condurre di nuovo al mare), e offre agli spettatori una duchessa politica, autoironica e saggia che certamente non sarà da dimenticare nel già vario repertorio dei suoi personaggi così femminili da strappare un applauso accorato; G. Pearce è un fratello serio ma al tempo stesso anche canzonatorio nei confronti del protagonista, e rappresenta inoltre un regnante che disdegna il trono perché ama una donna di stirpe non nobile il cui matrimonio con lei gli impedirebbe di prendere in magno il Regno Unito e governarlo come hanno fatto i suoi illustri predecessori, ed è interessante notare l’ardore con cui motteggia il fratello minore, al quale ha però lasciato sul groppone un’immensa responsabilità; T. Spall (lo stesso attore che interpretò Peter Minus/Codaliscia nei film di Harry Potter) è un Winston Churchill serioso, manieristico, imponente e maestoso, non ancora capo del governo nel periodo antebellico (allora c’era ancora Neville Chamberlain), che si distingue per la sua saggezza e il suo senso pratico nell’affrontare il percorso che porta il protagonista a raggiungere l’ampiezza del trono per attirare a sé i favori del popolo e diventare dunque un sovrano amato e rispettato, ma soprattutto forte e impavido, dato i tempi che si prospettano; infine, M. Gambon (l’Albus Silente della saga di Harry Potter, tranne che per le prime due pellicole) è un vecchio re Giorgio V ammalato che sente il dovere di istruire il figlio che sembra più inadeguato a succedergli con amore paterno e devozione quasi idolatrica, pur sapendo che l’altro figlio farà di tutto per intralciare i suoi progetti e specialmente per deluderlo. Le scene migliori: quella iniziale, in cui Bertie non riesce a parlare in pubblico tenendo il foglietto in mano; il primo incontro fra il protagonista e Lionel, in cui Bertie legge l’Amleto con la musica classica nelle orecchie tramite le cuffie; la morte di Giorgio V e le successive disposizioni governative; gli esercizi per sciogliere la lingua, il palato e le tonsille e le parolacce pronunciate a gioioso scopo terapeutico per sconfiggere i timori reverenziali, tutto questo sempre nello studio di Logue; la scena della sedia di legno nell’abbazia di Canterbury e l’incontro con l’arcivescovo Cosmo Lang (D. Jacobi); il discorso conclusivo alla radio e la seguente ovazione del pubblico, interessato e commosso dalle parole del re che ha finalmente ottenuto il suo obiettivo e può, da quel momento in avanti, regnare con padronanza e assennatezza. Molto suggestive le musiche del maestro Alexandre Desplat. Dodici candidature e quattro Oscar: miglior film, migliore attore protagonista, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.
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