Va bene Natalia Aspesi, ma che pure Roberto Escobar, che stimavo persona dallo sguardo puro e autenticamente appassionato di vita prima che di cinema, finisse per liquidare superficialmente un'opera superlativa, è prova che non ci si può fidare davvero di nessuno.
Come nella vita anche nell'arte le persone giudicano solo con parametri di casta, corporativi, e non si fanno scrupolo di mandare al rogo (ecco i veri inquisitori) un lavoro di una levatura eccezionale come quella del maestro danese.
Finalmente libero dalla necessità di provocare, esasperare o commuovere ad ogni costo, Lars Von Trier raggiunge vette di cinema degne di Dreyer.
Una struttura narrativa secca, due attori, una foresta, un affondo senza pudori nell'ombra della natura umana, prima che nella natura delle cose.
A mo' di allegoria medievale, Trier affronta un dramma familiare che si offre come pretesto per parlare di tutt'altro: del male, della colpa, della crudezza dell'essere vivi, della indecidibilità del dolore.
Opera meravigliosamente sbilenca, mi ha ricordato, forse per contrappunto, quel capolavoro di luce che è Ordet di Dreyer.
Lunga vita a Lars Von Trier. Un fischio per chi pensa che fare il critico sia solo questione di penna e non di anima.
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