Uno dei film più controversi degli ultimi anni. Un film rimasto (purtroppo) nascosto, per ovvi motivi legati ai (dir poco) scabrosi contenuti. Sconosciuto dai più, “Antichrist” è a mio parere la vetta di uno dei più grandi autori contemporanei, nonché il miglior regista danese vivente.
Le riflessioni (mai superficiali) di Lars von Trier non sono mai state così scomode e provocatorie. I temi sono stavolta il sesso e la natura inerenti all’entità femminile, visti come l’origine di un male cosmico.
Partiamo dall’inizio: è infatti proprio la scena iniziale ad aver suscitato scandalo e controversie in tutto il mondo. Un incipit folgorante, spiazzante, geniale e, a suo modo, poetico (per quanto possa definirsi “poetica” la tragica scena rappresentata”): un sapiente uso del montaggio, dove si alternano forti scene di sesso e la morte del bambino, ci fa capire fin da subito che l’atto sessuale è da considerarsi una colpa (il fatto di mostrare la scena nei più “spinti” dettagli non è indice di chissà quale vuoto intento provocatorio, ma ci vuole indicare che è proprio sul sesso come atto in sé che ci si sta concentrando).
A seguito di questo tragico evento, la vicenda si sposta in una casa in mezzo al bosco (per quanto possa sembrare appropriata sulla carta, ogni analogia col film di Raimi è del tutto fuori luogo), nella quale la coppia cerca di superare il trauma della morte del figlio attraverso un’”immersione psicanalitica nella natura”. Ed è proprio da qui, invece, che nasce/proviene il male: dalla natura, costantemente rappresentata come sinistra, minacciosa e malefica (si veda soprattutto la bellissima breve scena del bosco popolato da corpi/cadaveri bianchi).
Ma il regista va oltre; dal momento in cui ci accorgiamo del mutamento comportamentale progressivo della donna, la riflessione si sposta su un altro piano: egli ci vuol dire in realtà che è della malignità della natura (sesso) femminile che stiamo parlando; la scena della violenza praticata al sesso di Willem Dafoe, quindi l’ultima (la più emblematica, nonché cruda ai limiti della sopportazione) dove Charlotte Gainsbourg si taglia il clitoride (appunto per estirpare, cancellare il proprio sesso), lo dimostrano. La simbolica scena finale poi, dove il protagonista (si badi bene, il maschio sopravvissuto alla “pena”, quindi al “genocidio”, titoli dei due capitoli centrali del film ) si trova sulla collina attorniato senza via di scampo dalle donne in avanzamento, non lascia spazio a dubbi.
Un film estremamente complesso, dove sicuramente vi sono altre parentesi e/o dettagli sui quali non mi sono dilungato a discorrere, dominato dall’inizio alla fine da un’atmosfera angosciante e onirica.
Sicuramente non per tutti i gusti, sicuramente fastidioso e a tratti insostenibile. Ma profondamente introspettivo e decisamente coraggioso. La lucidità e la fermezza con le quali il regista danese impone (badate, non suggerisce, ma impone, nella consapevolezza che, in fondo, ogni vera forma d’arte è una dolce violenza all’anima e al pensiero) una propria convinzione è ammirabile e sconvolgente e ne fa uno dei film più audaci del nuovo millennio.
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