In memoria di me

Il novizio entra in convento e scuote le coscienze

Ne abbiamo parlato solo qualche settimana fa dal festival di Berlino dove l'opera seconda di Saverio Costanzo rappresentava l'Italia, unico film, al concorso per l'Orso d'oro. Non ha vinto ma ha lasciato il segno. La prima cosa da dire è questa. È un film e Costanzo un autore che ricordano una questione importante. Quella della specificità del cinema e della sua diversità da altre forme di comunicazione, intrattenimento, informazione. Quella della coscienza dei suoi mezzi, e quella dell'ambizione a cercare, sperimentare e affermare un proprio stile, personale e originale. Costanzo si dimostra all'altezza della sfida, in compagnia di non molti altri cineasti italiani. Citammo da Berlino, e li ripetiamo, i nomi di Sorrentino e Garrone. Sono i primi che vengono alla mente ma effettivamente, pescando nella loro fascia anagrafica, si fatica a elencarne altri. Costanzo dimostra di sapere o che comunque fa parte del suo patrimonio genetico la coscienza - per ricorrere a un esempio da manuale - che se al momento La dolce vita dovette apparire come un "esercizio di stile" che deformava completamente la realtà attraverso il filtro della soggettività, lo stesso film è poi diventato ed è per noi oggi il massimo "documento" del suo tempo. E proprio grazie al fatto che non si proponeva di essere realistico, obiettivo, descrittivo.
L'apparenza di In memoria di me e della sua vicenda di un trentenne ambizioso e sicuro di sé che entra come novizio in un convento dove si forma l'élite intellettuale della Chiesa e dove le prove da affrontare e le regole da subire sono durissime, è un'apparenza del tutto inattuale.
Invece la vicenda che intreccia il protagonista ai padri spirituali e in particolare a due compagni di noviziato è percorsa da innumerevoli e spessi rimandi alle inquietudini, ai grandi interrogativi che scuotono le coscienze di noi abitanti della contemporaneità cristiano-occidentale. Con l'andatura di un thriller. Con qualche faciloneria cinefila verrebbe da dire "bressoniano", ma non occorre perché quella del regista è una personalità abbastanza forte e autonoma.
Da La Repubblica, 9 marzo 2007


di Paolo D'Agostini, 9 marzo 2007