In The Cut

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Un film di Jane Campion. Con Meg Ryan, Mark Ruffalo, Kevin Bacon, Jennifer Jason Leigh Thriller, durata 120 min. - USA 2003. MYMONETRO In The Cut * * - - - valutazione media: 2,24 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Uno dei periodici miniscandali annunciati di Hollywood. La fidanzata d’America (quella nuova, Meg Ryan, perché l’altra, la classica, la storica, Mary Pickford, certe cose non le avrebbe mai fatte) si lascia alle spalle le storie gentili, delicate, tenere, il romanticismo, le poste per te, gli orgasmi ironicamente simulati al ristorante di Harry ti presento Sally, ed entra nell’inferno della città e del sesso, lo pratica, rischia, si ferisce, in ogni senso. Questo il «buzz», come si dice in gergo giornalistico, che circonda In the Cut, il film di Jane Campion in arrivo oggi sui nostri schermi, con Meg Ryan, appunto, nel ruolo delia protagonista, Jennifer Jason Leigh nel ruolo della sua amica-sorella, Mark Ruffalo in quello di un detective tutto sexy (non per nulla assomiglia a un giovane Marlon Brando) e Kevin Bacon, con la sua faccia da perfetto nevrotico, nel ruolo di un perfetto nevrotico, ex moroso della protagonista. E riesce in contemporanea da Guanda con il titolo Dentro (pp. 190, euro 13,50), che traduce grosso modo il senso e il doppio senso dell’espressione gergale inglese, anche il libro di Susanna Moore (pubblicato nel 1995 in America), da cui il film è stato tratto.
In the Cut, hanno detto, sembra a tratti un remake aggiornato al terzo millennio di In cerca di Mr Goodbar; ricordate?, il film di Richard Brooks dal romanzo di Judith Rossner, dove una elegante e fragile Theresa (Diane Keaton), insegnante in una scuola per sordomuti, educata secondo la tradizione cattolica, gentile e repressa, cerca nei bar più loschi di Manhattan la risposta ai suoi non troppo ascoltati impulsi sessuali (con complicazioni violente e finale durissimo). Qualcuno ha preferito definirlo Holly Golightly va a Hell’s Kitchen, insomma, un’allusione alla deliziosa interprete di Colazione da Tiffany a cui Meg Ryan per grazia e leggerezza in parte assomiglia, anche quando percorre le zone più dure di New York. Molti hanno visto nella scena iniziale del libro e dei film - quando Frannie, la protagonista, dopo un difficile incontro con un suo allievo di colore trasudante testosterone, scende le scale di un bar non proprio chic dell’East Village in cerca della toilette, e scopre invece, in una stanza dalla porta aperta, un signore che si sta facendo praticare una fellatio da una ragazza dai capelli rossi - be’, molti hanno visto in questa discesa nelle viscere della città per trovare una sconvolgente sorpresa una moderna versione di Alice. C’è da aggiungere che questa Alice-Frannie, dalla vista non perfetta, si mette gli occhiali sul naso per vedere meglio questa scena rubata alla sessualità altrui. Alice, Holly, Theresa in cerca di Mr Goodbar?
In effetti Frannie, la protagonista del libro di Susanna Moore e dei film di Jane Campion, è un personaggio che riassume tutte queste caratteristiche. E solitaria, è vagamente repressa, è curiosa. Troppo. Il personaggio a cui Meg Ryan presta il suo grazioso faccino, appena segnato da una bella maturità, è insegnante di creative writing in una scuola piena di ragazzi di colore (Cornelius, il gigante della scena iniziale, è tra questi). Ed è proprio la vicinanza con i suoi studenti e il loro linguaggio che suggerisce a Frannie di preparare uno studio sul gergo di strada - un elenco di parole impossibili che deve esser costato un sacco di fatica alla traduttrice italiana, Laura Nouhan, per trovare i termini corrispondenti. Frannie è anche imprudente. Perché dopo la sua escursione negli «inferi» del bar, dopo che ha osservato sul polso dell’uomo della stanza sotterranea uno strano tatuaggio, dopo aver appreso che una ragazza, Angela Sands, è stata uccisa e selvaggiamente smembrata, dopoaver capito che quella ragazza era la ragazza dai capelli rossi della stanza laggiù, be’, quando viene cercata e corteggiata (se questa parola vecchio stile vuoi dire ancora qualcosa) da un attraente detective, John Malloy, che ha sul polso lo stesso tatuaggio, decide, ovviamente, di corteggiare il pericolo e di lasciarsi andare. Fa parte, ovviamente, della eccitante accoppiata amore e morte.
Si sa che la letteratura e il cinema vivono di quella cosa che invocava Coleridge, il grande poeta: la suspension of disbelief la sospensione dell’incredulità. Inutile quindi, in effetti, andare a fare le pulci alle ragioni di un romanzo e del film che ne discende. E se nel film conta di più l’atmosfera di una New York indifferente, bella, degradata, percorsa da una continua ossessione sessuale, nel libro conta la bella scrittura di Susanna Moore, che fa dimenticare le incongruenze e le implausibilità.
Ma il «buzz», allora, il buzz dello scandalo dove sta? Be’, nel libro si parla di sesso con una lieve ed esplicita crudezza, come (non spesso) le donne fanno nei momenti di confidenza e di amicizia. Si parla di pratiche molto diverse da quelle classiche, con una precisione quasi didattica di suggerimenti e di buone idee. Si parla molto di clitoride. Si parla di come trovare il piacere. E siccome le parole non sono pietre ma le immagini sì, nel film queste stesse considerazioni si traducono nella pratica di alcune interessanti scene di sesso, anche Se, francamente, non vanno al di là di quello che il cinema europeo propone regolarmente anche agli adolescenti. Forse il signor Hays, promotore del celebre «Codice» che spinse Hollywood per vent’anni in una sorta di limbo infantile dove ogni allusione alla realtà dei sesso era tabù, forse il signor Hays si sconvolgerebbe. Ma uno spettatore adulto al massimo si chiede se Frannie non sia un po’ imprudente. In America, invece, il sesso di In the Cut (la fellatio vista stranamente in close-up: strano, perché Frannie è lontana, sulla porta della stanza dei misteri), l’aria soddisfatta con cui Meg Ryan si masturba (castamente), le scene di nudo in cui esibisce il suo corpo delicato e due o tre scene di sesso, esplicito sì ma certo non da Rocco Siffredi, hanno turbato i censori. Per cui gli americani, come sempre, si sono presi dei film una versione leggermente sforbiciata.
Gli adulti europei non ne saranno sconvolti, ma ammireranno semmai la New York improbabile e strana come la vedono gli occhi dell’australiana Campion, metà magica (con tutti quei petali di fiori che cadono per le strade come in Everybody Says I Love You), metà terrificante, dura, violenta. Scrivendo assieme la sceneggiatura, le due signore, Jane Campion e Susanna Moore, hanno anche deciso di cambiare, curiosamente, dei dettagli: il bel macho irlandese, Malloy, è nel film di origine italiana, e sfoggia sul biglietto da visita il nome Giovanni. Gli italiani sono più sexy? Più importante è il cambio che è stato apportato al finale: alla durezza quasi insostenibile della chiusa dei romanzo, Moore-Campion sostituiscono una conclusione poetica e sanguinaria, da cui tuttavia esce un raggio di sole. Non vi diremo di più. Dopo tutto, Alice o Holly Golightly o Theresa che sia la nostra Meg Ryan, siamo pur tuttavia in un thriller.
Da Il Venerdì di Repubblica, 19 dicembre 2003


di Irene Bignardi, 19 dicembre 2003

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