
Il regista coreano torna a Venezia per presentare il suo Pietà.
di Luisa Ceretto
"Per presentare e raccontare il buio, il nero, c'è bisogno di presentare la luce, il bianco, e viceversa. Se la crudeltà e la violenza sono il nero, serve il nero per poter capire in che direzione raggiungere poi il bianco.
Kim Ki-Duk fa ritorno alla sessantanovesima edizione della Mostra veneziana, per presentare il suo diciottesimo film, Pietà, che in Italia uscirà il prossimo 14 settembre, dopo aver diretto Arirang e Amen, presentati, rispettivamente, nel 2011 al festival di Cannes e a San Sebastian.
A seguito di un lungo soggiorno in Francia, il regista coreano è ormai da tempo tornato a vivere in Corea, nel un paesino e più precisamente nella casa raffigurati in Arirang.
In Pietà, dice il regista, "voglio mostrare il vero volto del denaro, un denaro che in sé non è condannabile, ma lo è l'uso che se ne fa; il film non ha per tema solo il perdono, la vendetta, vuole raccontare e recuperare un'essenza umana che forse stiamo perdendo. In questo senso, vuole parlare anche di salvezza dell'umanità, attraverso determinati atteggiamenti e valori".
I film di Kim Ki-Duk non si costruiscono su figure particolari, vogliono essere "l'interpretazione del mondo che io vedo in quel momento e in quel preciso modo; ogni protagonista è diverso perché la situazione oggi è diversa da quella che vedevo tempo fa e ho cercato di raccontare nei miei film precedenti, fasi differenti della storia del mondo che io vivevo".
Come avviene nella maggior parte del cinema di Kim Ki-Duk, i luoghi nei quali si muovono i personaggi, assumono un ruolo essenziale nella costruzione della vicenda. Girato in una Corea di cui ancora il pubblico occidentale conosce poco, gli spazi nei quali ha girato Pietà sono quelli di una zona che esiste ancora, si chiama Cheonggyecheon, dove il regista ha lavorato e vissuto per cinque anni, da quando aveva quindici anni. Una zona di grande importanza sul piano dello sviluppo storico del Paese, che ha visto nascere, appunto, l'information technology odierna, ed ha rappresentato un importante modello cui fare riferimento. È grazie a quella zona, se adesso "possiamo avere i telefonini, le televisioni digitali, i vari elettrodomestici per cui la Corea è famosa in tutto il mondo. Credo che nell'arco di pochi anni quella zona di edifici bassi che si vedono nella pellicola scomparirà, verrà man mano sostituita da grandi simboli del capitalismo sudcoreano, rappresentati da grattacieli e da enormi palazzi. Ed è proprio per questo che ho voluto girare in quei luoghi". Uno spazio urbano analogico, pieno di Storia, dove tutto ha avuto inizio, mentre i protagonisti sono digitali, perché si muovono apparentemente senza memoria e senza radici, mossi unicamente dell'interesse per il denaro.
Per i protagonisti della vicenda, Kim Ki-Duk si è avvalso, per il protagonista maschile, di Lee Jung-jin, l'impassibile strozzino che col suo agire militarista terrorizza le sue vittime, e per il ruolo femminile, la donna misteriosa comparsa dal nulla, Cho Min-soo, di cui ha accolto diversi suggerimenti, anche per l'abbigliamento e la scelta del colore rosso, che rimanda al sangue, alla sofferenza.