L’analisi dell’interpretazione di Sean Penn in This Must Be The Place, per certi versi “vicina alla perfezione”*, può partire dall’analisi del rapporto artistico tra l’attore e il regista e autore Paolo Sorrentino. Penn in conferenza stampa, riferendosi al suo regista: "Lui era il pianista, suonava il piano e io giravo semplicemente le pagine dello spartito: un onore per me.". L’influenza quasi osmotica che il regista napoletano esercita sui suoi attori attraverso un’attenzione maniacale per i dettagli non è una novità. Il suo storico attore protagonista, Toni Servillo, ama definire “creatività operaia” l’incontenibile foga narrativa e lavorativa del conterraneo, che non lo abbandona mai, nemmeno durante le pause, nemmeno tra un film e il successivo.
Già alla prima visione s’intuisce questa armonia, come se Penn fosse stato in grado di vedere nella mente del regista e di riprodurre esattamente ciò che aveva visto. La trasformazione dell’attore in Cheyenne è completa e definitiva e matura ad ogni nuovo movimento o sfumatura della voce.
Anche nella sequenza finale, quando il rischio che la credibilità del personaggio restasse nell’armadio, accanto ai vestiti da rocker, era altissimo, Cheyenne rimane Cheyenne. Un campo lungo lo mostra avvicinarsi, controluce, lentamente, alla finestra di Dorothy, una di quelle “donne pigre che da ragazzi abbiamo solo sognato”**. Non indossa più la “divisa” punk, ma lo riconosciamo ugualmente, come riconosceremmo un vecchio amico in mezzo alla folla: quella camminata, quel busto reclinato in avanti, quelle mani in tasca, quel sorriso sempre pronto a risolversi in una magica risata.
Sull’andatura di Cheyenne si potrebbe dire molto, ma sembra complicato tentare di capire chi tra regista e attore ne sia il primo responsabile. Infatti, se da un lato è vero che tutti i vecchi protagonisti di Sorrentino si sono sempre contraddistinti per camminate e movenze fuori dal comune (e paiono quindi filiazioni ovvie della sua irrefrenabile fantasia) dall’altro è lo stesso regista a sottolineare cheper Cheyenne il merito sia in gran parte di Penn, il quale ha definito quell’andatura come “la maniera di camminare dei ricchi che si sentono in colpa per essere diventati ricchi”.
Irresistibili anche i tic nervosi del protagonista: il soffiarsi via il ciuffo dagli occhi arricciando la bocca verso l’alto (vedi sequenza del fast food, in cui incontra Rachel) o l’avvicinarsi oltremodo alle persone con cui interagisce (vedi sequenza in cui “analizza” il “pelo nero” sul mento della moglie con gli occhiali impugnati a mo’ di lente d’ingrandimento, o la sequenza nella roulotte dell’ex nazista, quando si avvicina a pochi centimetri dal vecchio per immortalarlo con una compatta).
Cheyenne è nell’aspetto l’antitesi di ciò che è nello spirito, e Penn è lì per dimostrarlo. La corazza che si è costruito addosso e da cui da vent’anni non riesce a liberarsi, è in realtà totalmente inutile. Basta infatti osservarlo bene per rendersi conto della profonda contraddizione morfologia – psicologia che lo abita e lo rende buffo ed innocente, suscitando, da un lato le risate dei “mostri” in cui s’imbatte e dall’altro quel sentimento bukowskiano, misto di compassione e diffidenza, che non possiamo fare a meno di provare nel vedere quel volto segnato dal tempo e dalle fiabe. Una sequenza su tutte: il duetto con il figlio di Rachel: il gioco narcisistico e puerile di due bambini.
*Paolo Sorrentino su Sean Penn, intervista al Festival di Cannes.
**Cheyenne sugli amori adolescenziali, sequenza finale del film.
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