BAYBYLON è uno dei capolavori della stagione 2022, l'ultimo della filmografia di Damien Chazelle, che si è consacrato star di Hollywood nel 2016, quando portó LaLaLand nei cinema.
Pensato come un film dell'epoca d'oro e realizzato con un budget da blockbuster, Chazelle sembra non essersi mai trovato così a suo agio in una produzione. Lontano ormai dagli esperimenti di Whiplash che l'hanno portato all'attenzione dei media e dell'opinione pubblica, la lezione del montaggio che gli hanno lasciato Baz Luhrmann ed MTV pare essersi radicalizzata nello stile del regista (arrivare fino a titoli di coda per crederci).
BABYLON è un atto di amore per il cinema e al tempo stesso una dimostrazione della "dipendenza" da esso. Ambientato a ridosso dello spartiacque storico fra il fulgore del Muto e l'esordio dell'epoca del sonoro, inaugurato da "Il Suonatore di Jazz" (1927), il film segue la ribalta, il declino e il trapasso di un gruppo di "ultimi", i cosiddetti "scarti" della società, al cui vertice spiccano le figure della diva Nelly La Roy, di umilissime origini, e del messicano Manuel "Manny" Torres, che grazie a una contingenza di eventi nel contesto di uno sgangherato baccanale, rivoluzionano le loro carriere a Hollywood.
Damien Chazelle non è neofita a un modo di operare ambizioso e intraprendente, ed eredita la megalomania dei cineasti di un secolo fa, senza rinunciare a un "lessico" barocco e vorticoso.
Ma checchè se ne possa dire, quello di Chazelle è tutto fuorché un mero esercizio di stile, unisce sapientemente la monumentalità della messinscena a un attaccamento quasi "materno" verso i personaggi che disegna, verissimi e tragici nel loro contemporaneo tentativo di evadere dalla loro sfiga e di nascondere la loro solitudine, un tema già studiato con altrettanto riguardo e sentimento in LaLaLand.
Tutto il cast fa una grandissima figura e tiene alta l'attenzione, a partire da una Margot Robbie, bella, infisicata e "senza paura di mangiare", carica di uno spirito ribelle da cui lei per prima è incapace di emanciparsi, fino al crepuscolare e "viscontiano" Jack Conrad di Brad Pitt, la cui stella offuscata fa eco ai grandi leoni della letteratura, Gattopardo in testa.
Con una cornice che non si dimentica facilmente, ossia un piccolo universo creativo e distruttivo insieme, metafora stessa dell'esistenza, come una serie ciclica di scomposizione e riassemblamento degli eventi. E, in più, una incredibile qualità, mai si sono incastrate così bene diverse storie di "emarginati" in grado di restituir loro una dignità tale da allontanarsi fieramente dalla polittically correctness modaiola e di facciata degli ultimi anni.
Dal canto mio di "cineamatore", posso dire che Chazelle, per quanto mi riguarda, è riuscito in un'operazione sentita e "umana" come invece Tornatore, Sergio Leone e Guillermo del Toro non sono mai riusciti a fare in modo compiuto.
La grande impronta che rimarrà impressa nel cuore e nella mente degli spettatori, d'altro canto, spero, come consciamente rammenta la critica gossipara Elinor St. John a Conrad, è - senza tante manfrine, per una volta - che "se l'attore muore prima o poi come tutti, la sua immagine invece rimarrà viva in eterno".
Ps: un augurio di vittoria agli Oscar per le musiche di Justin Hurwitz e quello ulteriore di conferire un giusto riconoscimento anche alla Robbie, sempre cosi maledettamente sul pezzo.
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