William Lee è un uomo di mezza età statunitense, fuggito in Città del Messico dopo un blitz dell’antidroga. Qui l’uomo si rifà una vita, come diversi altri omosessuali fuggiti dal clima repressivo americano (siamo all’inizio degli anni ’50) e tra i fumi dell’alcol e degli psichedelici, vagabonda come una mosca da bar alla ricerca oziosa di “divertimento”. Finché non lo catalizza l’ingresso in scena del giovane Eugene Allerton (Drew Starkey), da poco uscito dalla leva militare. Evidentemente, Lee non ha armi sufficienti per sedurre il ragazzo, tuttavia si abbassa a qualsiasi stratagemma pur di elemosinare la sua compagnia e le sue attenzioni. La relazione, dapprima impacciata, esplode in un gioco carnale, ma deflagra in una frequentazione servile e infine tossica, in cui potere e capriccio si alternano ponendo sempre Lee in una posizione di svantaggio rispetto al comportamento evasivo e intollerante dell’altro. Lee le prova tutte, con l’alcol, con le sostanze, ma finisce solo per farsi assistere come un paziente malato, con sporadica, se non eccezionale, premura da parte di Allerton. Fino addirittura a convincere lo studente ad attraversare insieme a lui l’Amazzonia per sperimentare lo jagué, una radice psichedelica usata nei rituali sciamanici che stimolerebbe, così dice l’uomo, abilità telepatiche. Quando invece tutti sanno, protagonisti inclusi, anche se non se lo dicono, che l’intenzione di Lee è capire quali sentimenti muove la sua controparte e di possederla, in qualche modo.
Le premesse non danno spazio a un finale conciliante, ma non occorre risparmiare questa informazione al pubblico. La direzione della storia è già tracciata fin dal suo esordio.
Luca Guadagnino, dopo trent’anni dichiarati di attesa, trascrive insieme a Justin Kuritzkes il racconto tormentato omonimo di William Burroughs, una serie incompleta di appunti autobiografici inediti fino agli anni ‘80, quando il regista palermitano, allora diciassettenne, si ritrovò catturato dentro quelle pagine.
È impossibile non includere subito Queer a una realtà letteraria e cinematografica di lunga tradizione. D’altronde l’amore fatale è un sentimento universale, che affonda nella psiche umana e trova un bacino di rappresentazione in tutte le epoche. Abbiamo una lunghissima lista che precede Burroughs e alla quale è molto probabile che l’autore abbia attinto, forse anche inconsciamente. Prima di tutti Morte a Venezia di Thomas Mann, in cui spiccano, probabilmente più di ogni altro esempio letterario del Novecento, il tema di Eros e Thanatos, della divinizzazione morbosa dell’oggetto del desiderio e dell’afflizione. Ma non solo, abbiamo altri illustri esempi, da Il Talento di Mr. Ripley, La strada Scarlatta, I dolori del giovane Werther, Madame Bovary, Cime Tempestose, il Cyrano de Bergerac. Il cinema, inoltre, in particolare il noir, dà corpo e immagine alla femme fatale (un esempio può trovare la sua acme drammatica in Fatal Attraction con Glenn Close e Michael Douglas).
E per esteso, all’homme fatale.
Si pensi solo a Querelle, My Own Private Idaho, Beau Travail, All About Lily Chou-Chou, La Pianista, Les Amour Imaginaires.
In tutta la filmografia di Guadagnino sobbolle una vasta preparazione umanistica e letteraria.
È palese nel suo stile iconografico, nella composizione della fotografia e delle inquadrature (le citazioni a Fassbinder, a Storaro, a Coppola si sprecano). E risalta nel suo cinema ancora una volta l’amore impossibile, un tema, forse proprio per la sua trasversalità, che gli ha dato fortuna oltreoceano, quello interrotto, disperato.
I due protagonisti di Queer non sono altro che l’ultima, ma sempre attuale, manifestazione degli esseri umani come predatori e prede dell’Eros.E in una certa maniera, Guadagnino è bravissimo a raccontare le tappe consequenziali dei rapporti affettivi – già lo avevamo visto in Call me by your Name da cui eredita anche la grafica.
Eppure, al di là delle immagini, così ben realizzate, la ricostruzione incredibile negli studi di Roma di Città del Messico, dell’interpretazione sentita di entrambi gli attori, che si spogliano (anche letteralmente) di tutto il virilismo con cui vengono pubblicizzati dallo star system, il film non sonda a sufficienza le psicologie dei suoi personaggi, azzerando infelicemente l’immedesimazione. E non riesce a scostarsi del tutto da scelte che appaiono, in fondo, manieristiche. Non mancano infatti le simmetrie semantiche fra l’Eros e l’eroina. Così come si ripresentano, secondo una logica trita e ritrita, i giochi mitologici di contrasto fra il sublime sirenico – pulito, liscio e “scivoloso” - e il bestiale – ruvido, scabro e lascivo. Guadagnino non gioca certo di sottrazione, aggiunge infatti sovraimpressioni che raccontano i desideri inespressi; inserisce spunti di realismo magico e accenni al surrealismo notturno caro a David Lynch; fino all’erotismo pelvico, al simbolismo camp (il ciondolo a forma del millepiedi, detrivoro che vive nel buio e nell’immondizia, è una denuncia aperta della personalità liminale di Allerton), l’utilizzo della macchina fotografica come mezzo di congelamento della bellezza, ma inanimata. Persino la danza, tanto cara al Teatro Fisico quanto al pubblico LGBTQIA+, assume una forte centralità – vedi la scena del trip allucinogeno in cui i fisici bronzei di Daniel Craig e Drew Starkey si compenetrano, grazie al contributo di una CGI sottilmente elaborata.
In questa vicenda decadente non è del tutto chiara, però, la posizione che assume lo stesso Guadagnino. Se ne vuole assumere una, e quanto ci sia di suo. Se la sua sia solo la volontà di mostrare voyeuristicamente corpi e anime che si corrompono a vicenda o se ci sia sotto una partecipazione emotiva e morale alla mostruosità del protagonista. Una deformità, quella di William, che si potrebbe giustificare in un bisogno umano di amore, ma che si macchia delittuosamente di narcisismo e manipolazione.
Difatti, per quanto possa sembrare Allerton il personaggio ritratto come quello mercuriale e opportunista, non è questi a intrappolare il suo “Oscar Wilde”, non si concede su transazione (checché abbiamo malinteso i recensori e buona parte degli spettatori), ma attraversa faticosamente a sua volta un’iniziazione identitaria e accetta passivamente, suo malgrado, un ruolo accudente. Finché non comprende definitivamente, senza bisogno di verbalizzarlo, in simmetrico contrasto con il suo “protettore”, di essere lui il soggetto manipolato e a “rischio”.
Non può e non dovrebbe esserci scusa, in questo senso, per il Single Man di Queer, che, a differenza del suo analogo di Tom Ford, si insozza l’anima – il film ce lo mostra con costanza in abiti lisi, imbibito di sudore e alcol, sudiciume – per il suo, diciamolo!, laido obiettivo. E non può che esserci comprensione per il giovane Allerton, destinato anche lui forse a seguirne le orme, che è cosciente della tossicità di Lee, sebbene non faccia nessuno sforzo per apparire simpatico agli occhi del pubblico.
Forse sta in questo il vero aspetto degno di nota nel film di Guadagnino, ovvero di come il regista ridiscute con tono antifrastico il castigo di un anti-eroe corrotto nello spirito. Ma è difficile trovare altri spunti “straordinari”, nel senso stretto del termine, di riflessione.
Notevole il riutilizzo anacronistico del grunge dei Nirvana e il post-punk dei New Order da parte della coppia Trent Reznor - Atticus Ross (qui per la terza volta di fianco al regista), che per quanto “ruffiani“, ereditano le atmosfere e i testi della beat generation e risuonano con estrema efficacia fra le ombre e le luci delle passeggiate nottambule di William.
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