
Non è un film che glorifica la guerra, e non è neanche un pamphlet contro la guerra: tocca a noi fare quell’ultimo passo, tenere gli occhi aperti e renderci conto che la guerra è una tragedia. Al cinema.
di Giovanni Bogani
La guerra. Raccontata nei suoi silenzi, nelle sue attese esasperanti, nei suoi scatti improvvisi in cui accade tutto. La guerra, nella sua confusione: momenti in cui non si capisce, non si vede abbastanza chiaro, in cui tutto appare quasi incomprensibile. Nel film Warfare, di Ray Mendoza e Alex Garland, ti sembra quasi di respirare la polvere, il sudore, la puzza degli esplosivi. Ti fa respirare il panico, così come lo respira il plotone di soldati americani che sono al centro della narrazione – tratta, come si sa, da una vicenda vera.
Al centro della narrazione c’è un episodio, uno fra i tanti della guerra in Iraq. Non ci sono ragioni, non c’è il passato, c’è solo un presente che gocciola lento, e poi accelera improvvisamente, nel crepitio delle mitragliatrici, nei laghi di sangue, nelle urla dei feriti, nelle gambe maciullate lasciate lì, in mezzo alla strada. Non ci sono ragioni, non c’è un contesto storico, non ci sono motivi profondi, non c’è neppure un background dei personaggi. C’è solo un presente, feroce, che si prende tutta la scena.
Non c’è il grande quadro della guerra e delle sue ragioni, non c’è un affresco che voglia andare al di là di quelle ore, perché di ore alla fine si tratta. Se c’è un paragone che viene alla mente, è con The Hurt Locker di Kathryn Bigelow: anche lì ci sono le tensioni e le convulsioni dell’attesa, del deflagrare improvviso, e la tensione continua di uno sguardo che cerca di individuare dove la morte che arriva. Ma vengono anche in mente i primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan: quelli nei quali non c’è psicologia, non c’è dialogo, non ci sono scelte o ragionamenti, ma solo il crepitio delle mitragliatrici, la tonnara dei soldati, il caso che fa da discrimine fra la vita e la morte.
Ma alla fine, forse questa specie di minimalismo narrativo, di sguardo da entomologo sui soldati come insetti, come formiche guerriere, un senso profondo lo esprime. Ed è nella domanda che una donna irachena grida, dopo 90 minuti di orrore, ai soldati che se ne stanno andando: “Why? Why?”. Perché, perché? È la stessa cosa che ci chiediamo noi spettatori, in fondo.
È la guerra degli snipers, dei cecchini appostati per ore; è la guerra delle immagini satellitari, che individuano gruppi di uomini e i loro spostamenti anche da distanze chilometriche. Eppure, è ancora una guerra di prossimità del soldato all’altro soldato, è ancora una guerra di corpi, di civili che si ritrovano in mezzo. Non è certo una guerra asettica, non è certo una guerra che può ignorare il sudore, il sangue, le grida, il panico, le ossa spezzate, la paura della morte. E in questo senso, ci dice che ogni guerra non sarà mai chirurgica. Tanto meno quelle che stanno avvenendo oggi, in Ucraina e a Gaza.
Non è un film che glorifica la guerra, e non è neanche un pamphlet contro la guerra: tocca a noi fare quell’ultimo passo, tenere gli occhi aperti e renderci conto che la guerra è orrore. Non ci sono eroi, qui, non ci sono bandiere da piantare, non c’è nessun romanticismo. Ci sono civili terrorizzati, e uomini armati anch’essi prigionieri della stessa casa, e terrorizzati anch’essi. C’è solo, semmai, l’insensatezza della morte.
Il punto di vista è quello del plotone di soldati americani: i jihadisti sono ombre lontane, sono presenze che si indovinano, più che vederle. E soprattutto, si percepiscono: sono spari che arrivano, granate che esplodono. E poi ci sono le urla, quelle del personaggio ferito alle gambe, che continua con il suo grido lacerato, agonizzante, per mezzo film. C’è la brutalità non edulcorata.
Non c’è retorica, non c’è neppure un racconto sui perché del conflitto: non si spiega perché gli Stati Uniti stessero invadendo l’Iraq. C’è solo la guerra, nuda e cruda. Così come deve averla vissuta Ray Mendoza, veterano di guerra in Iraq e coregista del film. Si sente la preoccupazione di essere fedele a com’era andata davvero: i veri soldati che spiegano agli attori come si sono mossi, come uscivano allo scoperto, con quali movimenti. Possiamo vederli nei titoli di coda del film.