Safdie costruisce qualcosa di diverso dagli archetipi classici del genere. The Smashing Machine, dal 19 novembre al cinema.
di Tommaso Tocci
In The Smashing Machine, un regista furbo come Benny Safdie gioca fin dalla prima scena con le aspettative dello spettatore. L’universo è quello del film sportivo, e in particolare lo sport è il combattimento, nella sua incarnazione pionieristica di una mixed martial arts che negli anni Novanta in cui è ambientata la storia non era ancora il brand miliardario e planetario di oggi. Sullo schermo c’è Dwayne Johnson, il quale – a proposito di brand – porta con la sua presenza un complesso set di promesse e familiarità per il pubblico del cinema da popcorn che l’ex star della WWE naviga con successo da un paio di decenni.
Muscoloso, oliato e sofferente, il corpo del “fu The Rock” è una molla perennemente in tensione, anche se un po’ ammaccata. Safdie ne altera i lineamenti con il trucco per farlo sembrare un po’ più simile a Mark Kerr, wrestler protagonista del film e figura reale del circuito MMA dell’epoca. Ma la somiglianza è soprattutto metatestuale, sovrapponendo la memoria del corpo dell’attore a quella del suo personaggio. La rappresentazione della mascolinità sullo schermo sembra prenderci per mano e condurci verso uno studio che scava le pieghe oscure dell’atleta, del guerriero, e di come costui debba poi mediare l’istinto del superuomo una volta fuori dal ring.
Tuttavia Safdie (che insieme al fratello Josh è responsabile per l’angoscia viscerale di titoli come Good time e Uncut Gems) ha in mente qualcosa di diverso dagli archetipi classici del genere, dell’eroe residuale alla Rocky o del martire consumato di The wrestler. Nelle sue mani Kerr è una figura di mezzo che tende all’equilibrio in una tradizione cinematografica che lo vorrebbe veder sbandare a ogni curva. Si potrebbe pensare che una trovata del genere non sia proprio la base di una storia appassionante, ma scena dopo scena si crea un’intrigante dissonanza cognitiva tra la brutalità della lotta e la pacatezza performativa dell’uomo. Non a caso Safdie alterna ritmicamente le sequenze di combattimento con momenti di forzata introspezione, spesso dialettici: vediamo scambi con una signora e un bambino nella sala d’attesa del medico, in cui Kerr spiega loro che no, non odia i suoi avversari; oppure la domanda di un giornalista su cosa si proverebbe a perdere un incontro – un esercizio di immaginazione inconcepibile che produce per tutta risposta uno sguardo vuoto e perplesso.
Nella sua apparente ricerca di sintesi e sfumature di normalità, quindi, The Smashing Machine rivela tutto il suo complesso distillato di artificialità, che vale tanto a un livello strutturale (il film non è un semplice “trancio” di biopic, ma uno strano calco finzionale di un documentario che John Hyams girò nel 2002 su Kerr) quanto nel costrutto di mascolinità stratificata che è il suo protagonista, impegnato anche a performare una stoica resistenza al dolore e alla dipendenza dagli oppiacei, e perfino a interpretare il ruolo di compagno per la fidanzata Dawn, nonostante sia chiaro quanto preferisca essere lasciato in pace nella preparazione dei tornei.
Proprio la natura infiammabile delle litigate con Dawn è l’elemento che rischia di far esplodere la serenità pressurizzata di Kerr. Più della sconfitta sul ring – che pur inimmaginabile alla fine arriverà – e più delle beghe professionali, siano esse una negoziazione sul contratto o un’ingiustizia arbitrale. In questi momenti di conflitto domestico tra i due si può apprezzare una dinamica di potere e una sottile vibrazione psicologica che si allontanano dagli stereotipi classici del lottatore animalesco che si abbandona alla violenza sulla consorte inerme. Un po’ lo si deve alla caratterizzazione della donna (è lei ad avere le reazioni più estreme nella coppia), e molto alla studiata consapevolezza affettiva di Kerr/Johnson, sempre presente a se stesso, razionale e difensivo nell’uso del gergo da terapia. Kerr è quasi remissivo, perennemente alla ricerca di un’idea di uomo da abitare, che possa tener dentro di sé quest’abbondanza di emozioni.
Solo una volta lo si vede abbandonarsi a un gesto violento (un pugno che demolisce una porta) che Safdie inquadra in modo tale da renderlo spazialmente incongruo e quasi assurdo. È l’eccezione che segnala al pubblico quanto questo fosse ciò che attendeva sin dall’inizio, l’accumulo di tensione e aspettativa su cosa quel corpo e quell’attività abitualmente sottintende.
E invece questa decostruzione della dinamica di genere prende un’altra strada. Se il rapporto col femminile è uno spazio di costruzione e di astrazione, il romanticismo più spontaneo lo si trova invece in un rapporto doppio con il sé – Mark e un altro Mark – attraverso la figura di Mark Coleman, compare/spalla/rivale di una vita. È anche questa una elucubrazione tipica dei Safdie (una figura reale dell’epoca interpretata da un combattente reale dell’oggi, Ryan Bader, in qualità di attore non professionista) ma nelle scene tra i due uomini il film trova il suo cuore più rilassato e la sua intimità più autentica, potendo finalmente deporre le armi e identificare quella verità che tanto sembrava cercare.