
Anno | 2025 |
Genere | Biografico, Commedia, Drammatico |
Produzione | Spagna |
Durata | 60 minuti |
Regia di | Claudia Costafreda, Nacho Vigalondo |
Attori | Ingrid García Jonsson, Secun de la Rosa, Julian Villagran, Javier Gurruchaga Nacho Vigalondo, Natalia de Molina, Pepon Nieto, Rocío Ibáñez, Carlos Areces, Aníbal Gómez, Paula Púa. |
Tag | Da vedere 2025 |
MYmonetro | Valutazione: 4,00 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 25 luglio 2025
Miniserie biografica che racconta le vicende che hanno portato Tamara a diventare una cantante pop di successo e un'icona negli anni 2000 della tv spagnola.
ASSOLUTAMENTE SÌ
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In un caleidoscopio di luci al neon, suoni sintetici e sogni improbabili, Superstar - prodotta da Netflix - racconta l'ascesa e la caduta di Tamara, poi Yurena, icona controversa della TV spagnola dei primi anni Duemila. Ogni episodio esplora la sua storia da un punto di vista diverso: la madre che ne gestisce la carriera, il compositore delle sue canzoni trash, i rivali bizzarri che l'accompagnano sul palcoscenico mediatico. La realtà si dissolve spesso nel surreale, mentre tra apparizioni, talk show, visioni mistiche e ricordi reinventati si delinea un ritratto multiplo di una donna che, suo malgrado, è diventata un simbolo pop.
Questa recensione non può che cominciare con un appello: che qualcuno, in Italia, un autore visionario o un produttore coraggioso, recuperi l'idea di Superstar e ne faccia una versione italiana.
O meglio ancora, una rilocalizzazione radicale, capace di pescare nel nostro archivio sentimentale e mediale, nelle infinite pieghe della nostra cultura televisiva del desiderio, della vergogna e della rovina.
Forse i nostri fenomeni non sono stati incapsulati in un nome preciso come "tamarismo", ma sono stati altrettanto diffusi, pervasivi e interclassisti. Dalla figura di Valeria Marini a quella di Pamela Prati, che da decenni popolano varietà, reality e rotocalchi tra culto e caricatura, fino a personaggi più laterali e irregolari come Lisa Fusco e Flavia Vento, e l'intero catalogo delle meteore del Grande Fratello: la televisione italiana ha coltivato e consumato con sistematica voracità figure femminili costruite sul confine tra glamour e naufragio.
È la grammatica della trash TV, certo, ma anche il linguaggio di un disastertainment perfettamente codificato, che trova la sua linfa nel piacere colpevole, nella fascinazione per il fallimento, nell'imbarazzo riflesso e riciclato che spinge a guardare mentre si vorrebbe distogliere lo sguardo. Donne mediatiche che, tra paillettes e scandali, hanno incarnato intere stagioni culturali e sono state risucchiate e ridicolizzate da un sistema che si è nutrito della loro esuberanza, delle loro fragilità e della loro solitudine. Superstar dimostra che si può raccontare tutto questo con rispetto, stile, empatia e ironia. Ed è esattamente il tipo di racconto che manca oggi in Italia.
La regia di Nacho Vigalondo trasforma questa miniserie in un piccolo trattato visivo sulla mutazione della soggettività nell'era mediatica. I sei episodi, ciascuno costruito come uno specchio distorto, raccontano una Tamara diversa a seconda dello sguardo di chi la osserva. È una struttura fluida, frammentaria, che privilegia l'impressione alla cronaca, il gesto simbolico al fatto nudo. L'ibridazione dei registri - melodramma, farsa, realismo magico, musical pop e satira - è sorprendentemente coerente, perché sempre funzionale a raccontare l'oscillazione di Tamara tra figura pubblica e soggetto vulnerabile, tra caricatura e destino, ma senza mai raggiungere quella consapevolezza piena e quella forza autoriale che hanno permesso ad altre - pioniere e ribelli, come Raffaella Carrà (non a caso citata anche in questa miniserie) - di diventare registe del proprio personaggio, artefici della propria narrazione e del proprio successo.
Qui, al contrario, non si tratta di emancipazione, ma di un continuo assecondare lo sguardo altrui, di una soggettività modellata dagli occhi che la osservano e dai riflettori che la deformano.
Anche chi non conosce il fenomeno del tamarismo, né i suoi personaggi reali, può cogliere la forza evocativa di questo racconto. La serie si rivela, a ben vedere, come un'indagine culturale su un momento preciso in cui la televisione ha smesso di raccontare storie per iniziare a produrre identità. Siamo nel cuore dei primi anni 2000, quando la realtà diventa spettacolo, e lo spettacolo diventa la realtà di chi vi partecipa, quel passaggio fondamentale - oggi del tutto istituzionalizzato - in cui i personaggi smettono di essere in cerca d'autore e inizia una stagione in cui sono le persone in cerca di personaggi.
La fotografia gioca un ruolo fondamentale in questo processo. Il contrasto tra la plastica fluorescente dei salotti televisivi e i toni malinconici degli interni familiari riflette la doppia identità di Tamara: il personaggio e la persona. Ogni ambiente è iperrealistico e innaturale: è il kitsch elevato a gesto poetico, una sorta di archeologia emozionale che trasforma oggetti comuni - un telefono fisso, una tenda a fiori, una VHS - in simboli pop distorti e perturbanti. Viene spontaneo pensare a David Lynch, non tanto per le atmosfere inquietanti, quanto per la capacità di evocare il mistero che si annida nella superficie più banale.
La sceneggiatura adotta una struttura quasi pirandelliana: ogni episodio è la verità soggettiva di qualcuno su Tamara. Il montaggio asseconda questa struttura, alternando ritmi forsennati a sospensioni meditative, fino a culminare - ogni volta - in una danza finale, un ballo al ralenti che fonde il protagonista della puntata con la propria visione di Tamara. È una scelta registica straniante e ipnotica, che fa pensare ancora una volta a Lynch: quei momenti sembrano inviti a guardare dietro il sipario, a scorgere la meccanica fragile delle illusioni mediatiche.
È una visione formativa, in senso pieno. Superstar istruisce sul potere delle immagini, sulla violenza dolce della televisione, sull'osceno travestito da intrattenimento. E stupisce la sua capacità di essere perfettamente comprensibile anche a chi, come noi spettatori italiani, non conosce il contesto spagnolo: la grammatica del trash, del successo improvviso, del fallimento pubblico è, purtroppo, una lingua comune.
Ed è qui che torno al mio appello iniziale. In Italia, una serie come questa manca. Abbiamo avuto esperimenti di satira feroce e metatelevisiva come Boris, che però si è fermata alla critica interna al sistema. Abbiamo prodotto fiction su santi, preti, chef e carabinieri, ma quasi mai abbiamo guardato con umanità e coraggio alla nostra cultura pop. Eppure, le storie ci sono: figure ai margini, comprimarie del sogno televisivo italiano, vittime e complici di un immaginario che ancora ci appartiene. Superstar dimostra che è possibile raccontare queste vite senza giudizio, con grazia e sfrontatezza. Serve solo la volontà di farlo.