lunedì 29 novembre 2021 - Incontri
Nowhere Special, la storia reale e preziosa di John (James Norton), un padre a cui è stata diagnosticata una malattia terminale e della sua ricerca di una nuova famiglia per il figlio Michael (Daniel Lamont), è l’ultimo film di Uberto Pasolini. Regista, sceneggiatore e produttore, Pasolini ha firmato lavori come Machan (film sulla tournée tedesca della nazionale di pallamano dello Sri Lanka, una squadra che in realtà non esisteva...) e Still Life (premio alla regia della sezione Orizzonti a Venezia 2013), producendo, tra gli altri, il successo globale Full Monty con la sua compagnia Red Wave. Nowhere Special sarà in sala dall’8 dicembre, distribuito da Lucky Red.
Nowhere Special è l’idea di un futuro per il piccolo Michael, ma anche un documento del passato, un passato che il padre John cerca di costruire e tramandare al figlio.
Forse credo che abbiamo provato a fare più un film sul presente. Un film dove il padre, soprattutto all’inizio, e poi anche il figlio, sono attenti a proteggere il presente, e poi casomai il futuro. E una delle cose che John prova a lasciare fuori dalla vita di Michael è il passato triste, tanto che nella prima parte di questo viaggio, di questa storia d’amore, si dichiara favorevole all’idea che il figlio possa addirittura dimenticarsi di sé stesso. Gli sforzi del padre per la maggior parte delle settimane che condividiamo con loro sono rivolti a tenere la vita del figlio il più vicino possibile alla normalità, alla realtà di tutti i giorni, e non cambiare, non drammatizzare, non confessare.
All’inizio gli incontri con le potenziali famiglie adottive sono dichiarati come visite a dei nuovi amici, e solo gradualmente Michael si rende conto che la situazione è più complessa, che le cose stanno cambiando, e in fondo verso la fine è forse lui che diventa la persona che si occupa del padre. Quindi non tanto uno studio del passato quanto un tentativo di proteggere Michael dalla realtà del presente e poi una preparazione per il futuro, ed è solo lì che il padre accetta di essere la persona che dovrà dire al figlio cosa sta succedendo e a prepararlo a una vita senza di lui. Nel modo più semplice possibile, poiché in fondo un bambino di quattro anni ha difficoltà nel capire situazioni del genere.
E in Nowhere Special non si parla di questo, non si parla di morte, malattia, dramma, perché il film prova a essere quello che John prova a essere per Michael: un veicolo sottotono, che usa la stessa grammatica, gli stessi toni leggeri di tutti i giorni, non drammatizzando.
Il film ruota attorno alle vivide e sentite interpretazioni di James Norton e del piccolo Daniel Lamont. È interessante, in un racconto del genere, come il percorso del personaggio del figlio Michael si intrecci con quello dell’attore Daniel: un bambino di quattro anni che forse sul set, e per la prima volta, sta imparando cosa vuol dire la perdita, il distacco, la morte.
Ci siamo molto preoccupati, prima ancora di iniziare il casting, di come si poteva chiedere a un bambino di partecipare a una storia che tocca delle situazioni molto dure e dalle quali di solito si prova a proteggere i più piccoli. E nonostante questo, dovevamo creare la “realtà” del film e non fingere che si stesse facendo una cosa diversa – non fare ad esempio quello che ha fatto Benigni con La vita è bella (guarda la video recensione), chiaramente in contesti e circostanze molto diverse, e cioè proteggere il bambino nella finzione più completa. Quando ho conosciuto Daniel abbiamo parlato con la sua famiglia, una famiglia molto religiosa che ha letto prima la sceneggiatura e dove c’è stata un’immedesimazione profonda soprattutto del padre. Hanno detto che avrebbero parlato con Daniel in modo molto generale del viaggio dei due protagonisti, e poi abbiamo deciso di non spiegare le dinamiche psicologiche di ogni scena prima e durante le riprese. Quindi Daniel sapeva in termini teorici di cosa trattava il film ma non gli venivano mai date delle istruzioni psicologiche durante le riprese, ma solo indicazioni pratiche – guarda di qua, guarda tuo padre, rispondi così ecc.
Così Daniel è diventato un professionista come attore senza l’uso ad esempio del Metodo come avrebbe potuto fare Dustin Hoffman, e quasi subito ha avuto la chiara intuizione della differenza tra il Daniel sé stesso e il Michael del film. In questo modo il Daniel divertito e pieno di energia davanti la macchina da presa diventava il Michael silenzioso e introspettivo del film, senza angosce, senza preoccupazioni sul significato generale della storia, e soprattutto senza immaginare lo stesso destino per il suo vero padre.
VAI ALLA SCHEDA COMPLETA DEL FILM
CONTINUA A LEGGERE
In tutti i suoi film c’è sempre un incontro-scontro tra i vari protagonisti e le strutture della società, la burocrazia dello stato, che solo grazie all’intervento dei singoli divengono comunità – i protagonisti di Machan e le loro richieste di visto respinte dall’ambasciata tedesca, Eddie Marsan in Still Life che si occupa di rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine, gli stessi servizi sociali di Nowhere Special che aiutano il padre John a trovare una nuova famiglia per il figlio Michael.
Sì, il fattore determinante è sempre l’individuo, che abbia un ruolo sia all’interno che all’esterno della burocrazia. In Still Life il personaggio di Eddie Marsan aveva un’umanità molto forte, sviluppata, generosa, come quello interpretato da Eileen O’Higgins in Nowhere Special, che va oltre i limiti imposti dal proprio lavoro per aiutare i due protagonisti John e Michael. In Machan invece la burocrazia è più nascosta, non ha una faccia, rappresenta un mondo straniero che non si è capaci di conoscere ma da cui si è attratti.
È molto difficile vivere al di fuori dalla società, e dobbiamo sperare che la generosità che ci aspettiamo dagli altri entri nelle strutture sociali e venga offerta non dalla burocrazia ma da chi ci lavora dentro. In questo senso Nowhere Special è un film sull’ascolto, sull’attenzione agli altri, e questa è la cosa più importante che possiamo fare per il prossimo, da individui singoli e da appartenenti a una burocrazia. La lezione d’amore del padre John e del figlio Michael, l’uno verso l’altro, è l’attenzione e la necessità di capire cosa succede nella testa dell’altra persona, immedesimarsi, pensare a quelli che ci stanno davanti.
L’altra costante dei suoi film è l’afflato documentaristico che li pervade. Può essere una questione di stile, la scelta dei temi, l’attenzione a particolari ambienti sociali, che poi divengono la commedia corale di Machan o il drama di Nowhere Special.
C’è questo sguardo soprattutto perché io sono completamente carente d’immaginazione e devo rubare la realtà che circonda queste storie. E anche dal punto di vista del gusto personale mi sento più vicino alla semplicità, a un andamento sottotono, non ho gli strumenti adatti a raccontare il melodramma – mi commuovo davanti ai film di Douglas Sirk ma non sarei in grado di gestire come tecnica e linguaggio il genere. Tendo a lasciare più spazio al pubblico, senza la necessità di spiegare, sottolineare, sia nel momento in cui filmo che ancor prima nella sceneggiatura. Amerei pensare che giocando sottotono una parte del pubblico si incuriosisca di più, si sporga di più in avanti per catturare e fare suoi i sentimenti dei vari personaggi.
In Nowhere Special, ad esempio, ho provato a usare pochissima musica, perché non volevo sottolineare le emozioni dei personaggi o di una scena e lasciare piuttosto che sia il pubblico stesso a trovare la propria emozione, il proprio livello di sensibilità. In fondo la realtà di tutti i giorni non è drammatica, nel senso che quando questa c’è noi proviamo a rifiutarla, a viverla nel modo meno intenso possibile, come nel film dove il padre cerca di proteggere il figlio dalla realtà in cui sono immersi. E così come John “sdrammatizza” quello che sta accadendo a lui e a Michael, così io come regista faccio lo stesso lavoro con il pubblico, lasciandolo libero di trovare la propria connessione con quello che sta succedendo sullo schermo.
Nowhere Special vede la partecipazione a livello produttivo di Picomedia, Digital Cube e Rai Cinema, in una triangolazione tra Italia, Romania e Regno Unito – c’è anche la sua stessa casa di produzione, la Red Wave. In un momento come questo, cosa vuol dire lavorare a livello continentale, mettendo insieme economie, mercati e pratiche a volte molto diverse tra loro?
Vivendo in Inghilterra, e considerando che il paese è uscito da Eurimages da circa vent’anni, la facilità di creare co-produzioni partendo da Londra è meno immediata, limitata rispetto a un contesto europeo. In genere si guarda soprattutto verso gli Stati Uniti come fonte di finanziamento – ed è un peccato. Il cinema inglese ha meno dialogo con la varietà delle realtà cinematografiche europee che lavorano da Berlino, Roma, Parigi, Madrid e organizzazioni come MEDIA e Eurimages.
Essendo io italiano siamo stati fortunati perché abbiamo costruito una struttura produttiva che oltre all’Inghilterra copriva l’Italia e la Romania, e così abbiamo avuto accesso a Eurimages. I produttori europei sono molto più abituati nel creare queste co-produzioni, e speriamo che l’Unione Europea continui a finanziare queste possibilità, perché non si tratta solo di una questione economica ma di dialogo tra varie cinematografie. Per me è bellissimo vedere film che hanno avuto apporto creativo da diversi paesi europei, e certamente io stesso ho fatto un film diverso con i tecnici romeni rispetto a quello che avrei potuto fare senza di loro. Si tratta di conoscersi e conoscere vari modi di raccontare una storia, cosa che in Inghilterra va purtroppo incontro a uno sguardo limitato.