Quando affidi il filmico a Iñárritu e Lubezki è difficile pensare ad un risultato che si discosti molto dalla perfezione: qui - la perfezione - è stata raggiunta.
Con una regia assolutamente fuori dall'ordinario, fuori dagli schemi classici della grammatica cinematografica, Iñárritu ci catapulta alla fine del mondo immergendoci nel freddo e nella natura grazie ai meravigliosi piani-sequenza e ad un utilizzo magistrale del grandangolo; Lubezki invece, maestro della luce (3 Oscar), realizza una fotografia incantevole enfatizzando il contesto scenografico nel quale sono immersi i personaggi.
DiCaprio offre la prestazione più matura della sua carriera sotto la direzione di Iñárritu. È lo sguardo - ed il corpo - sofferente di un uomo che ha perso la moglie e non gli rimane altro che un figlio - finché anche questi non gli sarà strappato - a rendere pregevole la sua interpretazione sempre composta, mai melodrammatica e quantomeno esagerata, andando a fondo nel proprio dramma vivendo così con estremo riserbo il suo dolore, trasformandosi nel suo intimo sotto la grazia di una moglie saggia, linfa della sua vita. Grazie a questo ritroverà il rapporto con la natura, col suo popolo "selvaggio" prima nemico ed ora amico, con la sua terra inizialmente tradita da lui stesso.
Tom Hardy è l'antagonista perfetto, incarnando un uomo senza scrupoli che su quella terra incantevole vi specula uccidendo e trafficando pelli nel solo nome del profitto.
È un film che nella sua storia nasconde una critica storica ed universale ad un mondo violento che ha reso selvaggi i suoi nativi e ha reso nativi i selvaggi che hanno usurpato quelle terre. Una potente critica a chi della natura ne ha fatto - e ne continua a fare - speculazione e interesse a danno dei popoli e della natura stessa.
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