Nel 1823 il trapper Hugh Glass (DiCaprio) è guida di una spedizione di cacciatori di pellicce, fiaccata e decimata dagli attacchi degli indiani Arikara. Sulla via del ritorno Glass incappa in una femmina di orso grizzly che lo massacra. Il capitano (Gleeson) della spedizione, conscio della situazione disperata, decide di lasciare indietro Glass moribondo, assieme a tre uomini che gli diano degna sepoltura, Fitzgerald (Hardy), Bridger (Poulter) e Hawk (Goodluck), il figlio mezzo indiano di Glass. Ma il primo deciderà di abbandonarlo, credendolo ormai finito, e dopo averne ucciso il figlio se ne andrà assieme a Bridger. Ma Glass è tutt’altro che morto e inizia un lungo viaggio in cerca di vendetta. Tratto da una storia vera, raccontata nel romanzo di Michael Punke, adattato con libertà dal regista e Mark L. Smith, Revenant è il punto d’arrivo del percorso autoriale di Iñàrritu, la cui carriera a questo punto è nettamente divisibile in due parti: da una parte c’è la Trilogia del dolore, sceneggiata da Guillermo Arriaga, dall’altra c’è questa nuova fase, attualmente composta da tre film (Biutiful, Birdman e questo, appunto), in cui il regista si è promosso a co-sceneggiatore ed autore. Per quanto chi scrive sia un apprezzatore del percorso cinematografico di Iñarritu in generale, questo film e il precedente Birdman mi paiono davvero i risultati migliori e più maturi raggiunti da questo straordinario artista. Revenant è un percorso ascetico alla ricerca di risposte, all’interno di una Natura che non ne offre e si limita a mostrare la propria grandezza ed indifferenza insormontabili. È un film “evoluzionista” che afferma come raramente prima d’ora l’essenza animalesca dell’uomo. Non ha caso è narrativamente semplice (è un’azione continua, simile a Birdman per certi versi), è un calvario di sofferenza in cui l’uomo accetta di diventare un tutt’uno con la natura, in questo senso significativa è la sequenza in cui Glass dorme all’interno di un cavallo morto, entrando dentro la Natura, diventando realmente parte di essa. Solo così Glass sopravvive: tornando allo stato animalesco. Mangia carne cruda, dorme dentro i cavalli, pesca con le mani, si disseta con la neve che cade dal cielo. La sua sopravvivenza è dispensata dalla Natura, alla quale sopravvive entrando in simbiosi assoluta con essa. Ma se da una parte c’è la simbiosi uomo-natura, dall’altra c’è la differenzazione rispetto ad una Natura violenta (i lupi che sbranano i bisonti, o l’orsa che attacca Glass per difendere i suoi cuccioli) per necessità e l’uomo, violento perché essenzialmente malvagio (Fitzgerald è un mostro, ma anche Glass alla fine riceve la sua condanna: niente gli ridarà suo figlio, la sua vendetta è inutile poiché la vera vendetta è nelle mani di Dio): l’uomo è l’animale crudele della Natura, è animale per i comportamenti, umano per le motivazioni che li inducono. La Natura è attiva e passiva allo stesso tempo: vera protagonista dell’azione, pur sempre nella sua impassività di fronte all’orrore. Ella si fa sentire tramite il vento, una pioggia di meteoriti, una valanga, che fanno apparire l’uomo davvero una nullità di fronte all’immensità del creato che lo circonda. Tutto questo è espresso sostanzialmente solo tramite una eccezionale capacità nell’uso dell’immagine: non sono riflessioni che passano tramite le parole, ma tramite i gesti. In questo senso è simile al suo rivale ai prossimi Oscar, Mad Max: Fury Road, altro film in cui la riflessione passava attraverso l’azione e non tramite inutili, fluviali dialoghi. Questo è cinema: un film in cui l’azione, la gestualità torna ad essere protagonista, in cui ogni movimento di macchina diviene significativo. Non manca nemmeno una riflessione sul legame tra padre e figlio, che passa soprattutto tramite una serie di poetiche scene oniriche, talvolta più riuscite (la sequenza nella chiesa in rovina), talvolta meno, che comunque contribuiscono non poco alla innegabile spiritualità del film. La regia di Iñàrritu è una delle più belle prove mai viste nella storia: è di ambizione concettuale (la scelta coraggiosa di girare esclusivamente in ambienti reali ricorda i folli sogni di Herzog e Coppola) e tecnica assoluta, oltre che libera da ogni schematicità: la sua telecamera pare fluttuare nell’aria, percorrendo altopiani, boschi e fiumi in lunghi e articolati piani sequenza. Altro grande autore del film è senza dubbio il divino Emmanuel Lubezki, che si supera ancora una volta, regalandoci una fotografia a luce naturale che è forse la più bella e complessa che si sia mai vista sullo schermo, immagini di bellezza e purezza mai viste prima, che contrastano bene con la brutalità dell’azione (anche la fotografia assume dunque un ruolo essenziale nella narrazione e nella ricchezza tematica del film: così come deve essere in tutti i film che ambiscono ad essere “totali”). Indimeticabili infine le performance attoriali: DiCaprio ancora una volta si supera, in un’interpretazione assoluta e mastodontica, muta per buona parte del tempo scenico a lui riservato, capace di esprimere solo tramite le espressioni del volto (si veda il finale, uno degli sguardi più sublimi e forti che si siano mai visti al cinema), i grugniti e una fisicità dirompente tutta la lotta per la sopravvivenza, la non-comprensione della natura e l’incomunicabilità del suo intimo dramma, Tom Hardy è suo degno antagonista, la sua interpretazione è piena di sfumature, sguardi significativi e ha una potenza davvero rara. Revenant non è un film che capita di vedere spesso: è un’opera lunga, impegnativa, tematicamente molto complessa, tutta da riflettere e ragionare, è un film d’altri tempi forse, e proprio per questo è uno dei più significativi di questi anni: rimarrà scolpito nella nostra memoria. VOTO 9,5
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