È una luce abbagliante quella emessa da Spotlight, titolo originale del film e nome del team di reporter che tra 2001 e 2002 fece emergere lo scandalo di abusi sessuali in seno alla Chiesa cattolica di Boston. La luce di un riflettore (spotlight) acceso al Boston Globe dal neodirettore Marty Baron (Liev Schreiber) e tenuto puntato sui mali della città dal redattore Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton) e dai suoi collaboratori Mike Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James).
Quattro giornalisti al lavoro in quella sezione del Globe che conduce inchieste in autonomia già dai primi anni Sessanta. Quattro uomini che decidono di prestare ascolto al fiuto del direttore appena giunto da Miami circa la storia di un prete che molestò dei ragazzini e che già anni prima era stata trattata dal Globe, relegandola però alle pagine di cronaca locale.
Un peccato originale che – come mostra il film ben orchestrato da Tom McCarthy – è impresso nella coscienza di uno dei quattro di Spotlight: è il senso di colpa di Walter Robinson, che allora era appena giunto in Cronaca e decise di non prestare troppo ascolto né agli scritti di una delle vittime di abusi né all’elenco di testimonianze inviatogli dall’avvocato Eric Mcleish (Billy Cudrup).
Come a dirci che davanti a noi non abbiamo immacolati eroi, ma uomini come tutti gli altri, che possono sbagliare e correggersi. Eppure uomini che capiscono di svolgere un mestiere di grande responsabilità, giacché “un giornalista scruta la nebbia e la tempesta per dare allerta dei pericoli incombenti”. Sono le parole di Joseph Pulitzer, quelle dell’uomo cui è intitolato il premio che nel 2003 andò proprio ai giornalisti di Spotlight.
Anche grazie all’equilibrato montaggio di Tom McArdle, il regista ci mostra l’imperterrito lavoro di questo quartetto di investigatori, che sa muoversi tra polverosi magazzini, per le strade di una Boston pulsante, nelle interviste telefoniche, inserendo dati al computer, facendo parlare chi non avrebbe voluto farlo, tutto per riuscire a scorticare la muffa che nel tempo ha nascosto scomode verità. Quelle di un vero e proprio sistema sommerso di abusi sessuali da parte d’un numero sempre crescente di preti.
Ed è questo che fa del Caso Spotlight un film di grande capacità illuminante, un film che ci fa entrare e uscire da quel sotterraneo dove la squadra di “Robby” lavora alacremente, ci fa salire a trattare nel cristallino studio di Mcleish, ci fa addentrare in quello scombinato dell’avvocato Mitchell Garabedian (Stanley Tucci). E ci rivela che l’ermetismo di quest’ultimo è solo la facciata di grande intelligenza e statuto morale che accomunano il lavoro del (buon) giornalista a quello del (buon) avvocato: entrambi alla ricerca della giustizia che qualcuno vuole tenere sepolta.
Qualcuno che a Boston disponga di potere assoluto, qualcuno come una Chiesa Cattolica che per decenni ha coperto le malefatte di una minoranza marcia sotto il mantello rosso del cardinale Bernard Francis Law. La ricerca di Spotlight smaschera meschinità e omertà, dando il coraggio della parola ai vergognati silenzi di tante troppe vittime: oltre 1.000 quelle violentate da 249 sacerdoti. E s’arresta davanti ai numeri il film di Tom McCarthy. Finisce quando il lavoro di Spotlight è terminato, imprimendoci la sensazione di aver tastato che cosa debba essere il giornalismo, quello che Joseph Pulitzer definiva “una forza morale della comunità”.
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