La meraviglia del piccolo Gray (Ty Simpkins) di fronte al Jurassic World ci fa compiere una capriola emotiva di 22 anni all’indietro: e con il tema di John Williams (inserito nella colonna sonora di Michael Giacchino) è come se avessimo appena lasciato Isla Nublar.
Il segno di Steven Spielberg nel rendere realtà il Jurassic Park di Michael Crichton rimane indelebilmente parte di chi ne fu spettatore e anche in questo quarto capitolo della saga (dopo Il mondo perduto e Jurassic Park III) torna a mostrarsi con cadenzato studio nell’opera del giovane regista Colin Trevorrow, abile nello sfruttare come cassa di risonanza proprio gli echi spielbergiani.
L’orecchio più di tutto ci scorta in questo viaggio dal sapore conosciuto nella nuova macchina del divertimento che ruota attorno ai dinosauri. Sono le sensazioni sonore (musica, fruscii, versi) che ci avvincono insieme al buon uso di un 3D con cui scoprire un parco nel quale i ragazzini possono cavalcare piccoli dinosauri erbivori, dove gli ologrammi sanno affascinare anche i più scettici e i recinti dei grandi predatori ci trascinano con vivace forza nell’era Giurassica.
Ed è nella gabbia dei Velociraptor che facciamo la conoscenza dell’addestratore Owen Grady (Chris Pratt), mentre poco prima avevamo visto la più terribile attrazione: l’Indominus Rex, ibrido genetico creato nei laboratori della InGen che fu di John Hammond ed ora è di Simon Marfani (Irrfan Khan), proprietario di un parco sognante diretto dalla bella Claire Dearing (Bryce Dallas Howard).
Come accadde nel 1993 con Jurassic Park, è sempre la creatura più temibile a ricordarci quanto siamo piccoli rispetto alla sublimità della natura: allora fu il T-Rex a creare la frattura tra sogno e tragedia, ora è il coacervo genetico Indominus Rex a seminare indiscriminatamente violenza e sangue. Ed è dalla sua furba evasione che iniziano a intravvedersi tutte le crepe di un film che negli intenti (specie commerciali) sa farci brillare gli occhi, ma nella realtà si accartoccia come uomini e cose annientate dalla ferocia (talvolta troppo esibita) dei dinosauri.
Schiantato sotto il mastodontico peso di una creatura fuori norma e fuori controllo, l’esperimento Jurassic World tentenna nella costruzione di una trama spesso scollegata, nella quale si aggirano personaggi appiattiti e facilmente dimenticabili. Ci ritroviamo così a vagare dentro una storia nella quale due fratelli sono in fuga dall’Indominus, mentre la zia Claire e il muscoloso Owen tentano di salvarli, mettendo in campo anche il (fallimentare) piano del guerrafondaio Hoskins (Vincent D’Onofrio), che gli scaglia contro i Raptor come test operativo per una futura applicazione militare.
Nel frattempo l’intera isola piomba nel caos, migliaia di turisti sono esposti come prede agli pterodattili fuggiti dalla loro voliera e soltanto i cliffangher registici di Trevorrow in onore a Spielberg riescono a sollevarci più in alto del trambusto: lo squalo divorato dal gigantesco Masosauro in ossequio al film cult del ‘75, la stessa Jeep Wrangler di John Hammond ritrovata da Gray e Zach, l’inseguimento da parte di due Raptor che ricorda quello dei T-Rex nel Mondo perduto, lo stesso Tirannosauro che nel finale arriva a salvare tutti dall’Indominus (nel ’93 fu contro i Raptor). Omaggi e citazioni che ci soccorrono e, dispiegandosi come vele sopra la verde Isla Nublar, chiudono il sogno di un ritorno impossibile nello stesso modo in cui tutto iniziò: con il fiero ruggito del T-Rex.
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