Anno | 2014 |
Genere | Documentario |
Produzione | Italia |
Durata | 50 minuti |
Regia di | Fabrizio Bellomo |
MYmonetro |
Condividi
|
Ultimo aggiornamento martedì 1 marzo 2016
La famiglia Ciliberti vive nel quartiere di San Cataldo, a Bari, e inventa e realizza congegni meccanici, motori e opere d'arte.
CONSIGLIATO N.D.
|
L'albero di trasmissione è il primo lungometraggio di Fabrizio Bellomo, artista, regista e curatore.
Trattasi di una storia pugliese, ambientata e girata a Bari, ma dai contenuti universali. La vicenda di una famiglia, tutta di maschi, raccontata attraverso tre diverse generazioni che, partendo da un nonno pragmatico, ma anche sognatore, ha sviluppato la propria attività in direzioni diverse: Rocco, Simone e Nicola Ciliberti rappresentano tre età e tre mondi differenti, generati dalle stesse radici, dallo stesso "albero di trasmissione" che, qui rappresentato per primo da Rocco, il nonno, nasce da solide basi e procede per diverse ramificazioni.
Nel contesto di una Bari in cui occorre inventarsi il quotidiano, farlo fruttare e renderlo personale, i tre uomini hanno un talento prezioso: assemblare e creare oggetti. Questo talento e queste peculiarità di costruzione di mondi complessi e profondi - perché tali sono i contesti creati da Rocco e Simone, e forse, in un futuro, da Nicola - trasmessi da padre in figlio, sono stati minuziosamente sondati e, ad uno ad uno, ripresi da Bellomo che, senza giudizio o fuorviante punto di vista, ascolta, scruta e mostra ogni singolo dettaglio senza far rumore, ma lasciando spazio puro alle parole decise dei protagonisti, e ai loro gesti.
Bellomo è narrativo e riprende la purezza del contesto, con un costante rimando al passato, restituito dal racconto di Rocco - con pause poetiche date da un elemento di rottura piacevole, il pianoforte suonato dal nonno stesso - e dei figli quando erano piccoli, mentre mostrano vecchie fotografie ben tenute.
Ogni personaggio è rappresentato prima di tutto da un elemento determinante: per Rocco le mani, ora invecchiate, ma ancora attive, sulle quali la macchina da presa si sofferma senza orpelli, e che rappresentano il lavoro di una vita. Mani e parole, perché Rocco trent'anni fa ha costruito una macchina d'avanguardia, funzionante e futuristica, che oggi darebbe un calcio al nostro concetto di eco-sostenibilità, aguzzando sapere, tecnica e semplice curiosità. E lo racconta, mostrandoci una vecchia foto, senza compiacimento, giudizi o pentimenti. Simone è rappresentato attraverso il suo luogo: un garage, un magazzino aperto/chiuso, una gigantesca wunderkammer di oggetti che l'omone recupera e assembla quotidianamente, dando forme e utilizzi nuovi. Nicola, simpatico e sgamato, osserva e ascolta. Ha uno smartphone, il "suo" alter ego in questo caso, con cui riprende tutto: fotografa, fa' video. Ascolta il nonno e osserva il padre. Per poi, chissà, produrre alla sua maniera.
L'operosità e il talento tecnico-meccanico rappresentano il filo conduttore di questo racconto pulito e denso. Il regista non vuole dimostrare allo spettatore le sue doti narrative, ma pretende che ogni singolo dettaglio, cavillo tecnico, oggetto recuperato, oggetto ricostruito, immagine fotografica mostrata, accumulo, movimenti delle persone... vengano semplicemente assorbiti. Una storia che gira intorno alle sue radici partite da un uomo che crea musica e inventa una macchina come una pratica quotidiana normale, e che avrebbe potuto, forse, essere una piccola rivoluzione, ma che lo è stata di più così, nel racconto.