Marty, vita di un timido

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Un film di Delbert Mann. Con Ernest Borgnine, Karen Steele, Betsy Blair, Joe Mantell, Esther Minciotti.
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Titolo originale Marty. Commedia, Ratings: Kids+16, b/n durata 91 min. - USA 1955. MYMONETRO Marty, vita di un timido * * * 1/2 - valutazione media: 3,88 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

La rivoluzione permea di ideali il cinema USA. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 2 giugno 2018

MARTY, VITA DI UN TIMIDO (USA, 1955) diretto da DELBERT MANN. Interpretato da ERNEST BORGNINE, BETSY BLAIR, ESTHER MINCIOTTI, AUGUSTA CIOLLI, JOE MANTELL, KAREN STEELE, JERRY PARIS, FRANK SUTTON
Nella storia di Hollywood si può considerare un successo inatteso che ha pochissimi eguali. È un film tutt’altro che pretenzioso capace di provare con gioia, freschezza e commozione quanto le critiche negative non siano importanti per conquistare il favore del pubblico e portare a casa l’Academy Award. Nel 1955 ottenne quattro statuette: film, attore protagonista, regia, sceneggiatura originale. Borgnine esce dai consueti ruoli di antagonista per interpretare con candore e leggerezza, ma anche stupendamente, Marty Piletti, introverso macellaio del Bronx dal volto simpatico ma grasso e brutto, ormai rassegnato ad un’esistenza da scapolo finché non incontra un’insegnante di chimica, Clara Snider, altrettanto, e solo in apparenza, insignificante e sola, non bella, non più giovanissima (la Blair ottenne una nomination, purtroppo andata a vuoto, come migliore attrice non protagonista). Eppure la contentezza appena raggiunta da Marty viene già messa a repentaglio. La madre apprensiva e iperprotettiva ha paura di perdere il suo figliolo. Gli amici del macellaio, dal canto loro, ripugnano ogni donna che non mostri l’aspetto prorompente di una pin-up e Marty non trova il coraggio di contraddirli. L’incredibile difficoltà del protagonista a trovare una compagna ha destato il cuore degli amanti del cinema, trasformando questa commedia calma ma non languida nel successone insperato che ha sfondato al botteghino facendogli nel contempo vincere quattro Oscar. Costituisce già una svolta nel cinema d’oltreoceano per aver inserito nella trama il ceto piccolo-borghese che dapprima era tagliato fuori dal repertorio filmico. A metà anni ’50, pressappoco in corrispondenza col termine dell’esperienza maccartista, emerse negli Stati Uniti una generazione di nuovi autori, fattisi le ossa specialmente nel teatro e nella televisione, i cui lavori vennero trasposti sul grande schermo anche da una schiera di registi intellettuali e coraggiosi, la cui formazione politica risaliva al periodo del New Deal. Fra questi nuovi autori – drammaturghi e sceneggiatori – si distinse Paddy Chayefsky, ebreo di origini ucraine, nato nel Bronx, a contatto con le più industriose e fitte minoranze etniche dei suburbi newyorkesi: slavi, irlandesi ed italiani. Proprio fra gli italiani è ambientata la pellicola in questione, sceneggiata dallo stesso Chayefsky e affidata per la regia ad un eccellente allestitore ed esordiente direttore di attori come D. Mann. Sulla lapide di Chayefsky si legge «rinomato scrittore, drammaturgo ed umanista», ed è proprio la terza attribuzione che emerge in Marty, dacché al centro dell’attenzione sussistono gli esseri umani, alle prese coi propri drammi sociali e, prima di tutto, personali, in un contesto di realismo che nulla concede all’ideologia imperante di allora, saldamente ancorata e concentrata sui generi e sui divi. Respingendo ogni manierismo, quest’opera di Chayefsky e di Mann trasforma la povertà degli ambienti e la ricchezza umana dei propri caratteri nella sua cifra stilistica, anche per merito di un cast che si è mostrato capace di estrarre il meglio dal milieu italoamericano della metropoli, influenzando cineasti che sapranno affermarsi in seguito, per esempio Cassavetes prima e Scorsese poi. Considerevole la prova recitativa di Borgnine (al secolo Ermes Effron Borgnino, radici italiane nella finzione come nella realtà), maldestro e problematico quanto serve e nei momenti cruciali e giustamente ricordato, nonché premiato, per il suo simpatico macellaio che sa abbattere i pregiudizi e colmare i ritardi sentimentali e fisiologici contro le aspettative degli amici troppo sottanieri e dei parenti malagevoli (la madre già sfiduciata da tempo, la zia abbandonata dalla sorella di Marty – la di lei figlia – che patisce la solitudine inesorabile della vecchiaia, ma poi fatica ad accettare il genero indisponente che rigetta le attenzioni del cognato sull’acquisto della macelleria e i fratelli più giovani tutti già accasati altrove e con famiglie rispettive a carico). Marty non è un antieroe, ma nemmeno il suo opposto, ad esser sinceri. È una sorta di paladino senza spada che agisce muovendo dalle emozioni primigenie del suo animo, il che gli consente di trovare l’anima gemella (una B. Blair che sa fare l’impacciata come una signora di elevatissima classe e i cui piccoli passi, pure per lei, verso la ricerca dell’altra metà della mela non derivano da tentativi focosi, ma da approcci che rivelano qualità innate d’insegnante non solamente come mestiere, ma soprattutto in veste di possibile candidata alternativa migliore delle altre per la sua veridicità) evitando le insidie della lussuria e rimanendo coerente ai suoi principi di uomo pragmatico e, in fin dei conti, anche risoluto nella sua delicatezza. Fotografia: Joseph LaShelle. Musiche: George Bassman, Joseph Harnell, Harry Warren, Roy Webb. Scenografia: Edward S. Haworth, Walter Simonds. Costumi: Norma Koch.  

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