chiarialessandro
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lunedì 9 luglio 2012
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chi vuol esser lieto, sia...
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Leggero all’apparenza ma contemporaneamente peso e profondo nella sostanza; semplice, comprensibile, realistico. Mette con delicatezza ed eleganza (ma impietosamente) a nudo falsità, gelosie, invidie, ripicche, paure, timori, falsi amori, meschinità, bigotteria, speranze, cinismo e vuoto interiore. L’umiltà e l’accettazione di noi stessi possono essere un ottimo trampolino di lancio per raggiungere gli obiettivi più insperati. Incantevole l’interpretazione di Borgnine, che difficilmente avremmo pensato di poter vedere nelle rudi vesti con cui appare nel “Mucchio selvaggio”.
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mike91
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mercoledì 5 novembre 2014
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semplice e genuino...
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Marty lavora in una macelleria. All'inizio del film viene continuamente redarguito da conoscenti che gli rinfacciano di non essere sposato. Non certo un bell'uomo, anzi un pò grasso, Marty è tuttavia un uomo simpatico, quasi allegro, che vive ancora con la madre rimasta vedova quando Marty aveva solo 13 anni. Vive con rassegnazione la sua condizione di scapolo, e la sera spesso e volentieri si incontra con i soliti amici presso il solito Bar, sempre la solita routine.
Ma durante un film ci sarà un cambiamento, una piccola grande gioia per il nostro Marty, che incontra, una sera che non voleva neanche uscire, una timida e graziosa maestrina che fa da tappezzeria in una sala da ballo dove era stata maleducatamente scaricata dal suo cavaliere bastardo.
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Marty lavora in una macelleria. All'inizio del film viene continuamente redarguito da conoscenti che gli rinfacciano di non essere sposato. Non certo un bell'uomo, anzi un pò grasso, Marty è tuttavia un uomo simpatico, quasi allegro, che vive ancora con la madre rimasta vedova quando Marty aveva solo 13 anni. Vive con rassegnazione la sua condizione di scapolo, e la sera spesso e volentieri si incontra con i soliti amici presso il solito Bar, sempre la solita routine.
Ma durante un film ci sarà un cambiamento, una piccola grande gioia per il nostro Marty, che incontra, una sera che non voleva neanche uscire, una timida e graziosa maestrina che fa da tappezzeria in una sala da ballo dove era stata maleducatamente scaricata dal suo cavaliere bastardo. I due si conoscono, parlano, ballano attaccati l'uno all'altro, e si apprezzano vicendevollmente. Marty la porta a casa sua e prova a baciarla, ma lei rifiuta. Marty, sentendosi sconfitto, esterna la sua delusione, confessando di provare da sempre molta solitudine, al che lei lo rassicura del fatto opposto: ossia che a lei Marty piace molto e che, nonostante adesso in quel momento non voglia baciarlo, da adesso in poi penserà sempre a lui, quasi innamorata. Marty è felice, si sente forte e potente, ma più tardi le canzonature dei suoi amici e la gelosia invadente di sua madre gli fanno pensare di non voler continuare la frequentazione con la maestrina, trascurando di chiamarla all'ora che avevano stabilito. Ma alla fine, in un accesso di consapevolezza, si rende conto che i suoi desideri sono la cosa più importante, e che lui vuole bene a quella maestrina e che desidera vederla e così la chiama, determinato e coraggioso, sfidando persino gli amici.
Che dire? Un film semplice e nello stesso tempo profondo, un piacevole bianco e nero che regala tante emozioni a chi nel cinema non disdegna una certa dose di sana genuinità. Ecco: questo è un film profondamente genuino e sincero, che però contiene in se stesso un certo realismo affascinante, che si basa proprio su questo meccanismo di osservazione delle persone nella loro quotidianità, senza grandi azioni.
Un film che non promette niente ma mantiene tutto. Da vedere e rivedere. Senza stancarsi mai. Come un prisma che da colori differenti a seconda di come viene colpito dai raggi del sole, che in questo caso sono gli occhi e la mente dello spettatore.
Passatemi il termine esotico.
Un film zen, che non guarda altro fuor da se stesso, e che in questo suo essere così com'è, senza grosse pretese di intellettualità, trova il suo significato più denso.
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greatsteven
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sabato 2 giugno 2018
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la rivoluzione permea di ideali il cinema usa.
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MARTY, VITA DI UN TIMIDO (USA, 1955) diretto da DELBERT MANN. Interpretato da ERNEST BORGNINE, BETSY BLAIR, ESTHER MINCIOTTI, AUGUSTA CIOLLI, JOE MANTELL, KAREN STEELE, JERRY PARIS, FRANK SUTTON
Nella storia di Hollywood si può considerare un successo inatteso che ha pochissimi eguali. È un film tutt’altro che pretenzioso capace di provare con gioia, freschezza e commozione quanto le critiche negative non siano importanti per conquistare il favore del pubblico e portare a casa l’Academy Award. Nel 1955 ottenne quattro statuette: film, attore protagonista, regia, sceneggiatura originale. Borgnine esce dai consueti ruoli di antagonista per interpretare con candore e leggerezza, ma anche stupendamente, Marty Piletti, introverso macellaio del Bronx dal volto simpatico ma grasso e brutto, ormai rassegnato ad un’esistenza da scapolo finché non incontra un’insegnante di chimica, Clara Snider, altrettanto, e solo in apparenza, insignificante e sola, non bella, non più giovanissima (la Blair ottenne una nomination, purtroppo andata a vuoto, come migliore attrice non protagonista).
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MARTY, VITA DI UN TIMIDO (USA, 1955) diretto da DELBERT MANN. Interpretato da ERNEST BORGNINE, BETSY BLAIR, ESTHER MINCIOTTI, AUGUSTA CIOLLI, JOE MANTELL, KAREN STEELE, JERRY PARIS, FRANK SUTTON
Nella storia di Hollywood si può considerare un successo inatteso che ha pochissimi eguali. È un film tutt’altro che pretenzioso capace di provare con gioia, freschezza e commozione quanto le critiche negative non siano importanti per conquistare il favore del pubblico e portare a casa l’Academy Award. Nel 1955 ottenne quattro statuette: film, attore protagonista, regia, sceneggiatura originale. Borgnine esce dai consueti ruoli di antagonista per interpretare con candore e leggerezza, ma anche stupendamente, Marty Piletti, introverso macellaio del Bronx dal volto simpatico ma grasso e brutto, ormai rassegnato ad un’esistenza da scapolo finché non incontra un’insegnante di chimica, Clara Snider, altrettanto, e solo in apparenza, insignificante e sola, non bella, non più giovanissima (la Blair ottenne una nomination, purtroppo andata a vuoto, come migliore attrice non protagonista). Eppure la contentezza appena raggiunta da Marty viene già messa a repentaglio. La madre apprensiva e iperprotettiva ha paura di perdere il suo figliolo. Gli amici del macellaio, dal canto loro, ripugnano ogni donna che non mostri l’aspetto prorompente di una pin-up e Marty non trova il coraggio di contraddirli. L’incredibile difficoltà del protagonista a trovare una compagna ha destato il cuore degli amanti del cinema, trasformando questa commedia calma ma non languida nel successone insperato che ha sfondato al botteghino facendogli nel contempo vincere quattro Oscar. Costituisce già una svolta nel cinema d’oltreoceano per aver inserito nella trama il ceto piccolo-borghese che dapprima era tagliato fuori dal repertorio filmico. A metà anni ’50, pressappoco in corrispondenza col termine dell’esperienza maccartista, emerse negli Stati Uniti una generazione di nuovi autori, fattisi le ossa specialmente nel teatro e nella televisione, i cui lavori vennero trasposti sul grande schermo anche da una schiera di registi intellettuali e coraggiosi, la cui formazione politica risaliva al periodo del New Deal. Fra questi nuovi autori – drammaturghi e sceneggiatori – si distinse Paddy Chayefsky, ebreo di origini ucraine, nato nel Bronx, a contatto con le più industriose e fitte minoranze etniche dei suburbi newyorkesi: slavi, irlandesi ed italiani. Proprio fra gli italiani è ambientata la pellicola in questione, sceneggiata dallo stesso Chayefsky e affidata per la regia ad un eccellente allestitore ed esordiente direttore di attori come D. Mann. Sulla lapide di Chayefsky si legge «rinomato scrittore, drammaturgo ed umanista», ed è proprio la terza attribuzione che emerge in Marty, dacché al centro dell’attenzione sussistono gli esseri umani, alle prese coi propri drammi sociali e, prima di tutto, personali, in un contesto di realismo che nulla concede all’ideologia imperante di allora, saldamente ancorata e concentrata sui generi e sui divi. Respingendo ogni manierismo, quest’opera di Chayefsky e di Mann trasforma la povertà degli ambienti e la ricchezza umana dei propri caratteri nella sua cifra stilistica, anche per merito di un cast che si è mostrato capace di estrarre il meglio dal milieu italoamericano della metropoli, influenzando cineasti che sapranno affermarsi in seguito, per esempio Cassavetes prima e Scorsese poi. Considerevole la prova recitativa di Borgnine (al secolo Ermes Effron Borgnino, radici italiane nella finzione come nella realtà), maldestro e problematico quanto serve e nei momenti cruciali e giustamente ricordato, nonché premiato, per il suo simpatico macellaio che sa abbattere i pregiudizi e colmare i ritardi sentimentali e fisiologici contro le aspettative degli amici troppo sottanieri e dei parenti malagevoli (la madre già sfiduciata da tempo, la zia abbandonata dalla sorella di Marty – la di lei figlia – che patisce la solitudine inesorabile della vecchiaia, ma poi fatica ad accettare il genero indisponente che rigetta le attenzioni del cognato sull’acquisto della macelleria e i fratelli più giovani tutti già accasati altrove e con famiglie rispettive a carico). Marty non è un antieroe, ma nemmeno il suo opposto, ad esser sinceri. È una sorta di paladino senza spada che agisce muovendo dalle emozioni primigenie del suo animo, il che gli consente di trovare l’anima gemella (una B. Blair che sa fare l’impacciata come una signora di elevatissima classe e i cui piccoli passi, pure per lei, verso la ricerca dell’altra metà della mela non derivano da tentativi focosi, ma da approcci che rivelano qualità innate d’insegnante non solamente come mestiere, ma soprattutto in veste di possibile candidata alternativa migliore delle altre per la sua veridicità) evitando le insidie della lussuria e rimanendo coerente ai suoi principi di uomo pragmatico e, in fin dei conti, anche risoluto nella sua delicatezza. Fotografia: Joseph LaShelle. Musiche: George Bassman, Joseph Harnell, Harry Warren, Roy Webb. Scenografia: Edward S. Haworth, Walter Simonds. Costumi: Norma Koch.
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breberto
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mercoledì 5 dicembre 2007
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come invecchiano certi film!
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Le tre stelle in onore all'importanza storica del film, al realismo minuto che portava sullo schermo, tanto lontano dagli schemi hollywoodiani, ma sarebbero troppe per come appare il film oggi: irrimediabilmente scontato e datato. La tematica non interessa più niente, il taglio smaccatamente teatrale della maggior parte delle sequenze, la prevedibilità delle psicologie, ne fanno un prodotto che si guarda con benevola sufficienza. Proprio per questo si apprezza ancora di più l'interpretazione dei due protagonisti: Borgnine, in un ruolo tanto diverso dal villain di molti film western che avrebbe fatto, è ammirevole per una interpretazione tutta sottotono così come appare bravissima la sua partner, quella Betsy Blair che si vorrebbe brutta e non giovane, mentre aveva un suo fascino nello sguardo e aveva da poco superato i trent'anni.
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Le tre stelle in onore all'importanza storica del film, al realismo minuto che portava sullo schermo, tanto lontano dagli schemi hollywoodiani, ma sarebbero troppe per come appare il film oggi: irrimediabilmente scontato e datato. La tematica non interessa più niente, il taglio smaccatamente teatrale della maggior parte delle sequenze, la prevedibilità delle psicologie, ne fanno un prodotto che si guarda con benevola sufficienza. Proprio per questo si apprezza ancora di più l'interpretazione dei due protagonisti: Borgnine, in un ruolo tanto diverso dal villain di molti film western che avrebbe fatto, è ammirevole per una interpretazione tutta sottotono così come appare bravissima la sua partner, quella Betsy Blair che si vorrebbe brutta e non giovane, mentre aveva un suo fascino nello sguardo e aveva da poco superato i trent'anni. Fu tanto brava in questo film, in questo tipo di ruolo che - credo l'anno dopo - lo spagnolo Bardem le affidò un ruolo simile in CALLE MAJOR e l'anno dopo ancora (1957) Antonioni la volle fra le protagoniste del suo film IL GRIDO.
Pazienza gli OSCAR ricevuti e del resto in fondo meritati ma il fatto che abbia avuto il gran premio della giuria a Cannes fa pensare che o c'era quell'anno una selezione molto modesta o il film fu sopravvalutato. Oggi ci può fare solo un po' di tenerezza, anche perchè il regista ha poca personalità e si limita a illustrare una buona sceneggiatura. Il cinema d'antan è un'altra cosa.
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