La storia ci insegna che, tranne rare occasioni, chi è chiamato ad altissimi incarichi istituzionali si guarda bene dal rifiutare il potere, o dal cederlo successivamente per sopravvenute contingenze ostative. Ebbene negli scorsi anni ’30 la storia della Gran Bretagna è andata controcorrente, allorché il re Edoardo VIII abdicò per sposare l’americana divorziata Wally Simpson, ed il recalcitrante fratello minore Albert –poi diventato re Giorgio VI- fu chiamato secondo il diritto ereditario a sedere sul trono. Il film, bellissimo, narra appunto le vicende e le tribolazioni di quest’ultimo che, affetto da balbuzie fin dall’infanzia e per carattere poco incline a svolgere quel compito di alta responsabilità, soprattutto nell’imminenza di una nuova guerra resa inevitabile dalla follia di Hitler, viene spinto dalle circostanze a compiere il fatale passo che avrebbe volentieri evitato. Il tema del rifiuto del potere e delle connesse implicazioni è la traccia narrativa su cui si innestano i personaggi principali e di contorno, fino al (sofferto) trionfo finale: il principe, superato l’ultimo ostacolo, diviene re, apprezzato e stimato da tutti, e sarà il punto di riferimento di governo e popolo in uno dei momenti più bui del XX secolo.
Albert, duca di York, nella temuta prospettiva che arrivi il suo turno, cerca di superare l’handicap ricorrendo, prima controvoglia poi con crescente convinzione, all’aiuto di un logopedista australiano anticonformista, non ortodosso e, come emergerà dopo, senza formali titoli; nonostante le iniziali difficoltà di relazione fra i due, sarà questa l’arma vincente per affrontare la prova più drammatica: l’instaurarsi di un canale di comunicazione verbale con i sudditi, condizione essenziale per creare un rapporto fiduciario tra monarchia e popolo, che culminerà nella prova del nove del primo discorso via radio alla Nazione. Ma il rapporto tra “Bertie” il principe e Leonard il terapeuta stenta a decollare: le regole poste da Leo prevedono piena parità e totale libertà nella gestione della cura, e questo è difficile da accettare da parte di un principe. Fin quando il perimetro di cura viene ristretto dal diffidente Albert ad interventi “meccanici” sulla bocca e sul corpo, i progressi sono scarsi e discontinui; ma quando i due convengono sulla necessità di estendere la terapia alla sfera psicoemotiva, cui il difetto è strettamente collegato, tutto si sblocca e l’obiettivo diventa a portata di mano, grazie anche all’apporto di stimolo, di dolcezza nonchè di ferma determinazione della moglie e futura regina. Paziente e logopedista diverranno amici, ed il sostegno di Leonard resterà insostituibile per lo svolgimento dei gravosi compiti del re.
Il film, dal punto di vista storico, ha il merito di ricordarci non tanto la vicenda di Edoardo, dimissionario per amore, di cui sappiamo molto (compresa la simpatia verso il nazismo) per la prolungata risonanza mediatica che lo scandalo ebbe, ma soprattutto quella del suo successore –fatta di dubbi, paure, ire, ma anche di tenacia, capacità di combattere i cedimenti, fiducia nell’altrui sostegno (ed alla fine in se stesso)- di cui conoscevamo poco o nulla. Il rapporto con il proprio destino e quindi con il potere, sentito come irrinunciabilità ad un ruolo di guida morale e carismatica nell’interesse esclusivo della Nazione, è perfettamente descritto dal regista, che rifugge da qualsiasi orpello ed effetto spettacolare che distolgano dalla descrizione dei personaggi e delle loro dinamiche.
Inoltre il film, girato quasi esclusivamente in interni, è, per come è impostato, soprattutto una prova di recitazione, e qui sta l’elemento di maggior pregio, anche se tutto il resto, dall’accurata ricostruzione di ambienti alla luce soffusa e un po’ cupa tipicamente inglese, funziona a meraviglia. Su Colin Firth, a pochi giorni dall’uscita sui nostri schermi, si è già detto molto e, dopo la eccelsa prova di “A single man”, le sue quotazioni di attore drammatico erano già salite vertiginosamente; con “Il discorso del re” abbiamo avuto un’attesa conferma, e la consapevolezza che in quel ruolo dalle molte sfaccettature e di particolare difficoltà interpretativa è arduo immaginare un’alternativa migliore. Geoffrey Rush, che dopo “Shine”, abbiamo visto in parti non da protagonista assoluto, è uno di quegli attori da cui ti aspetti sempre il massimo e sai che non ti deluderà. Il loro duetto di connotazione marcatamente inglese è al centro di questo grande film, dove ogni passaggio evolutivo tocca e commuove, nonostante l’intera vicenda sia già nota così come il finale liberatorio. Edificante, istruttivo, esemplare ed artisticamente pressoché perfetto.
Ed anche, per confronto, molto attuale.
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