Le avventure di due gangster alle prese con una valigetta dal contenuto misterioso, con l’avvenente moglie del boss che dopo aver sniffato eroina pura al 100% va in overdose e con il cervello di un uomo di colore freddato per errore che insozza tutta la macchina, si incrociano con quelle di due innamorati che si accingono a rapinare un pub e al dramma di un pugile che con il boss che lo aveva convinto a partecipare ad un incontro pilotato, finiscono nelle mani di due tipi non molto raccomandabili, dove l’esito dell’incontro annegherà nel sangue. Tutte queste storie, apparentemente slegate fra loro, sono in realtà al centro di un concentrato di violenza, erotismo, religione, romanticismo e situazioni surreali…
Il modo di esprimersi di Quentin Tarantino, ultima ventata di genio e sregolatezza che ci giunge dalla cultura dell'immagine USA, è segnato dal "dopo".
Dopo, non solo perché si occupa di atmosfere, situazioni, personaggi della letteratura poliziesca di serie B, tutta violenza ed erotismo, in voga negli anni Trenta e Quaranta. Ma, soprattutto, "dopo" perché il vero soggetto, e tutta la costruzione si alimentano di quella che viene ormai definita "Junk culture": cultura- spazzatura, oppure universo di segni che hanno ispirato e comunque segnato un'epoca.
Junk è naturalmente il drogato; ma anche il cibo frettolosamente ingoiato degli hamburger, e tutta una cultura fatta di telefilm, videogiochi ed “innocenti” evasioni.
Tarantino trasforma in cinema quei segni epocali attraverso il filtro di altre citazioni. Quelle cinematografiche: delle quali (come i Coppola, gli Scorsese, i Bertolucci o i Godard) si è nutrito fino ad esaurimento.
Succede allora che l'ingordigia, ma anche il piacere infinito, il distacco dal quale nasce l'irresistibile (e insostituibile, poiché dissacrante) umorismo, i riferimenti ai film, agli attori, alle scenografie, come pure ai cantanti, al rock, alla gestualità, a tutto quell'universo dell'immagine che ha marcato la fine di questo secolo, gli serve, brillantemente, per completare il suo assemblaggio di miti verso qualcosa che comincia ad assomigliare ad un film.
Al resto, a dargli quella forma definitiva che merita "Pulp Fiction", per inserirlo di diritto nella nostra memoria, è la formidabile, quasi sfrontata maestria sulla quale si costruisce lo sguardo cinematografico di Tarantino.
La sceneggiatura: quella di "Le Iene", compressa, circolare, riavvolta su se stessa come nel mitico "Rashomon" era stata un primo, sorprendente gioiello.
In "Pulp Fiction", le tre storie diverse non solo si costruiscono, ma si confondono, si spiegano, si invertono temporalmente, per condurre ad incrociarsi personaggi apparentemente autonomi, destini che si spiegano a vicenda, psicologie irresistibilmente camuffate ed al tempo stesso logicamente conseguenti.
Gli inediti Travolta, L. Jackson, Keitel e Thurman, rievocano il mito, l'epoca del twist, dei padrini, delle pupe o degli eroi del Vietnam con la libertà, il distacco permesso da un umorismo che sembra ricostruirsi di sequenza in sequenza.
Rigore assoluto, e libertà quasi spudorata della costruzione: su questa formula apparentemente inconciliabile, Tarantino infittisce una rete magistrale di dialoghi.
Monologhi alla Woody Allen che smontano la violenza, smitizzano le situazioni: secondo un principio introdotto da "Le Iene", è l'imprevisto a modificare l'andamento di ogni sequenza, l'urgenza spesso banale, che obbliga l'eroe ad interrompere la Storia per andare a fare pipì.
Capace di riflessioni imposte dai piani fissi, o dai più tradizionali campo-controcampo, la travolgente messa in immagini del regista non può quindi che riferirsi a quell'universo culturale ed estetico che lo ispira.
Se Truffaut diceva che per Hitchcock descrivere l'atto di uccidere non differiva da quello di fare l'amore, per Tarantino quello di sanguinare e parlare sembra generarsi dalla stessa, inesauribile sorgente.
Palma d’Oro al Festival di Cannes 1994 e Oscar alla miglior sceneggiatura.
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