Vento gelido, neve, desolazione: un Cristo in croce deformato dal dolore. In lontananza l’ultima diligenza per Red Rock, che avanza sul crescendo cupo e disperato della magnifica ouverture di Ennio Morricone. Schermo nero, titoli gialli sulla neve: così ha inizio l’ottavo film di Quentin Tarantino. Un film inquietante, come solo alcuni capolavori sanno essere. Una pellicola che ha fatto e farà discutere: un’opera che non sarà forse la più bella, ma senza dubbio la più coraggiosa, scomoda e politica dell’inimitabile sceneggiatore-regista americano.
Wyoming, inverno. Qualche anno dopo la fine della guerra civile. Inseguiti dalla bufera, otto personaggi si ritrovano, apparentemente per caso, sotto il tetto dell’emporio di Minnie. Si tratta di un vero ensemble di presunti stereotipi western, sulla falsa riga del microcosmo di frontiera disegnato magistralmente in “Ombre rosse” di John Ford. Dalla diligenza scendono quattro pellegrini poco rassicuranti: John Ruth il Boia (Kurt Russell) inseparabile dalla prigioniera Daisy Domergue (una straordinaria J. Jason Leigh) condannata alla forca; un bizzarro campagnolo sudista che si presenta come il futuro sceriffo di Red Rock (Walton Goggins); e infine il maggiore nordista Marquis Warren, cacciatore di taglia senza scrupoli e uomo nero (S. L. Jackson). All’interno dell’emporio li attendono altrettanti loschi figuri, braccati dalle intemperie.
Nella trappola per topi della baita, in un’atmosfera sempre più claustrofobica (che ricorda lo scantinato di “Bastardi senza gloria”), tensioni, odi e rancori mai sopiti di un’America violenta e crudele riemergeranno all’improvviso, rivelando un’occulta quanto inesorabile connessione mortale tra gli otto maledetti.
Il film non lascia spazio a buoni sentimenti e a principi morali. Non ci sono eroi né lieto fine. I corpi smembrati e gli schizzi di sangue colpiscono lo spettatore, come proiettili roventi. Ma ciò che colpisce davvero è la visione pessimistica, cruda e brutale dell’America, ritratta come un inferno di sangue e neve. Il controcanto della lettera di Lincoln dopo la carneficina è uno degli atti di denuncia politica più potenti e sconcertanti nella storia del cinema western.
Tutto questo odio racchiuso in un’architettura narrativa formidabile, assorbito nel tessuto di una sceneggiatura originale da Oscar scandita in sei capitoli e farcita da dialoghi cesellati con verve geniale, taglienti più di un rasoio, letali più di una Colt. A livello strutturale il film, pur nella sua lunghezza, è articolato con una misura esemplare, costruita dalla precisione maniacale di un burattinaio cinefilo nel pieno della sua maturità artistica: lo confermano l’uso chirurgico della colonna sonora, l’espediente giallistico del narratore onnisciente e il ricorso al flashback nel quinto capitolo, meccanismo perfetto per sospendere e investigare nello stesso tempo.
Si tratta di un film difficile, che colpisce come un pugno nello stomaco. D’altra parte, al di sotto della superficie cruenta della pellicola, Tarantino sviluppa con forza un tema ormai classico nel suo cinema, ma sempre più connotato in chiave letteraria e teatrale: un tema che potremmo definire la “finzione della maschera”, la rappresentazione del personaggio che recita un altro personaggio in un metateatro che diventa a tutti gli effetti il motore di quel funambolico crescendo di tensione claustrofobica che tanto caratterizza l’universo poetico tarantiniano. Non bastano più i rimandi postmoderni al cinema del passato. Tarantino sembra puntare ormai alla grande letteratura, allo scandaglio dell’animo umano, dove nessuno è in realtà ciò che dice di essere. In questo modo Quentin continua la sua ricerca artistica, confermandosi uno tra i più grandi scrittori della storia del cinema. Purtroppo di Tarantino ce n’è uno solo.
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writer58
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venerdì 12 febbraio 2016
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non condivido, ma apprezzo
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Sono in parte in disaccordo con la tua valutazione. "Hateful eight" mi è parso prolisso, ridondante, meno efficace di altre opere del maestro. Non mi è piaciuto l'escamotage della voce fuori campo, i dialoghi mi sono apparsi "fluviali" e poco taglienti, la tensione narrativa si stempera nella lunghezza eccessiva del film. Tuttavia, trovo la tua recensione molto ben scritta e argomentata, hai uno stile espositivo interessante e capacità di sintesi che motivano il lettore alla visione della pellicola. Quindi, voto a favore della tua recensione, anche se non ne condivido diversi spunti.
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