corrado
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sabato 15 aprile 2023
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pura poesia
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C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA
Spesso ci diciamo come sarebbe bello visitare un paese sconosciuto, senza servirsi di un viaggio organizzato, andando alla ventura, immergendosi nel paesaggio, parlando con la gente del posto. Ma non puoi: il paese sconosciuto ti intimorisce, non hai capacità di adattarti alle difficoltà di un viaggio “non protetto”, non conosci la lingua, ...
Poi ti capita di andare al cinema e vedere un film “C’era una volta in Anatolia”, che noi l’Anatolia non sapevamo precisamente dove si collocasse, e ti immergi, giorno e notte, in un paesaggio infinito che evoca tanti altri paesaggi, attraversi paesi e villaggi che ormai si assomigliano tutti.
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C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA
Spesso ci diciamo come sarebbe bello visitare un paese sconosciuto, senza servirsi di un viaggio organizzato, andando alla ventura, immergendosi nel paesaggio, parlando con la gente del posto. Ma non puoi: il paese sconosciuto ti intimorisce, non hai capacità di adattarti alle difficoltà di un viaggio “non protetto”, non conosci la lingua, ...
Poi ti capita di andare al cinema e vedere un film “C’era una volta in Anatolia”, che noi l’Anatolia non sapevamo precisamente dove si collocasse, e ti immergi, giorno e notte, in un paesaggio infinito che evoca tanti altri paesaggi, attraversi paesi e villaggi che ormai si assomigliano tutti. Partecipi alla vita delle persone, perché parlano una lingua che è la tua (un’ovazione ai doppiatori), ridono e soffrono di sentimenti e drammi che sono simili a quelli che si svolgono attorno a te. Le differenti culture si appiattiscono e, se ti lasci andare, entri in relazione con queste persone e partecipi ai loro discorsi banali e quotidiani, alle loro riflessioni sul mistero della vita e della morte, alla ricerca di un significato.
E che il film non offra soluzioni, né alla trama “poliziesca”, né alle vicende dei personaggi lo rende ancor più reale. È come se aveste conosciuto delle persone in un pezzo della vostra vita e poi le aveste perse di vista. Non sapete cosa è poi successo di loro, ma vi sono rimaste dentro. Avete visto l’Anatolia meglio che da un pullman di un viaggio organizzato e avete parlato con la gente del posto. Due ore e trenta di film che valgono un viaggio... pura poesia.
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lorenzodv
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sabato 25 gennaio 2020
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mezzo pieno
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Qualche volta capita che la trama non sia l'elemento essenziale del film e svolga soltanto la funzione di contenitore di altri elemento, un'opportunità per raccontare, attraverso i personaggi, altre cose che non popolano la storia principale ma si ramificano da essa. Questo è quel tipo di film, la storia è scarna e poco interessante, serve soltanto a far incontrare delle persone che scambiano esperienze tra loro e con lo spettatore. Soltanto che anche queste storie collaterali sono essenziali, poco sviluppate e in fondo non così particolari tanto che gli stessi personaggi le raccolgono con aria di banalità.
Io abbandono il fumo ma il fumo non mi lascia andare; i bambini subiscono passivamente le azioni degli adulti; una persona può usare il suicidio come vendetta contro chi resta vivo.
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Qualche volta capita che la trama non sia l'elemento essenziale del film e svolga soltanto la funzione di contenitore di altri elemento, un'opportunità per raccontare, attraverso i personaggi, altre cose che non popolano la storia principale ma si ramificano da essa. Questo è quel tipo di film, la storia è scarna e poco interessante, serve soltanto a far incontrare delle persone che scambiano esperienze tra loro e con lo spettatore. Soltanto che anche queste storie collaterali sono essenziali, poco sviluppate e in fondo non così particolari tanto che gli stessi personaggi le raccolgono con aria di banalità.
Io abbandono il fumo ma il fumo non mi lascia andare; i bambini subiscono passivamente le azioni degli adulti; una persona può usare il suicidio come vendetta contro chi resta vivo. Queste sono le saggezze del film, argomenti validi e pronti da sviluppare in altrettante storie che qui sono mancate.
Il pregio di quest'opera è la fotografia notturna. Spesso la cinematografia, sbagliando, rende la notte con il buio. Qualcuno che conosce poco le arti fotografiche potrebbe osservare che la notte è caratterizzata dalla carenza di luce, quindi questa tecnica non sembra sbagliata. La notte è buia e su questo non ho da obiettare, purtuttavia qualcosa si vede, l'occhio è assai adattabile e vede anche di notte ma vede diversamente ed è questo l'effetto da imprimere nella pellicola, mentre il buio sulla pellicola impedisce di vedere. La notte "fotografica" non è caratterizzta dal buio, è resa con maggiori contrasti, ombre ampie e diffuse, toni di colore ridotti, esattamente come succede in questo film che ciascun direttore della fotografia dovrebbe studiare. Aver fatto una cosa correttamente tra le tante che andavano fatte non sembra un gran merito ma se si considera che di tutti i film prodotti questo è uno dei pochi che riesce nelle risprese notturne (il primo che ricordi di aver visto personalmente) il merito diventa un record e gliene va dato atto.
Il maggior difetto sono i dialoghi nei momenti morti della narrazione, quando i personaggi sono impegnati e non possono dialogare. In tutti questi momenti il silenzio è riempito da brevi battute di inciatamento che non solo non servono ma ricordano tempi e tipologie di cinema arcaiche risalenti a quando le tecniche narrative ancora non erano sviluppate.
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anna
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domenica 28 ottobre 2018
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autolesionistico è dir poco...
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Giaspoto, sei un grande! Hai descritto perfettamente quello che questo film trasmette... soprattutto il titolo è pouyche azzeccato! Complimenti!
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roselin
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mercoledì 8 ottobre 2014
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una rete di sentimenti ed emozioni, abitudini
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C’era una volta in Anatolia
Nel cuore dell’Anatolia, paesaggio arido e brullo, è notte fonda. Una squadra di poliziotti percorre in macchina le strade deserte, con loro viaggia un presunto assassino. Sono alla ricerca del corpo di un uomo morto ammazzato. Nuri Bilge Ceylan racconta la sua terra turca, la sua gente, una cultura, la sua, che il buio della notte copre, ammanta come a nascondere la miseria della vita, della gente, delle cose della quotidianità. Un viaggio che condurrà i protagonisti a ribaltare quello spazio esterno, che li vede indagatori di un crimine, a specchio impietoso della propria esistenza, dei propri limiti e miserie esistenziali. Il film sviluppa la storia lentamente sin dall’inizio, di notte, girovagando con le macchine, in mezzo alla steppa, al gelo.
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C’era una volta in Anatolia
Nel cuore dell’Anatolia, paesaggio arido e brullo, è notte fonda. Una squadra di poliziotti percorre in macchina le strade deserte, con loro viaggia un presunto assassino. Sono alla ricerca del corpo di un uomo morto ammazzato. Nuri Bilge Ceylan racconta la sua terra turca, la sua gente, una cultura, la sua, che il buio della notte copre, ammanta come a nascondere la miseria della vita, della gente, delle cose della quotidianità. Un viaggio che condurrà i protagonisti a ribaltare quello spazio esterno, che li vede indagatori di un crimine, a specchio impietoso della propria esistenza, dei propri limiti e miserie esistenziali. Il film sviluppa la storia lentamente sin dall’inizio, di notte, girovagando con le macchine, in mezzo alla steppa, al gelo. Ed in tutto questo girovagare i dialoghi dei protagonisti affascinano, conquistano per la naturalezza dei contenuti spontanei, che ordinano la trama e la definiscono passo dopo passo, mentre i volti degli uomini che parlano sono illuminati da un deciso chiarore lunare. Dai dialoghi emergono battute ironiche, sapori ed odori, come la bontà dello yogurt o dell’agnello alla griglia, che allontanano sapientemente ansie e sospetti di una ricerca che durerà tutta la notte. Perché “C’era una volta in Anatolia” è un messaggio possente e nello stesso tempo affascinante? Perché Nuri Bilge Ceylan sviluppa una rete di sentimenti ed emozioni, li filtra attraverso i volti dei personaggi, costruisce e porge allo spettatore con magistrale naturalezza i caratteri ben delineati di uomini dimessi e desolati, espressioni di una cultura chiusa, soggiogati da un destino comune. I dialoghi strutturano un senso, le parole rendono con le idee, le affermazioni, le domande, gli aspetti interiori dei protagonisti. La malinconia è la compagna di ognuno di questi uomini. Il procuratore Nusret, ironicamente afferma che il volto del morto somiglia a Clark Gable , ma si addossa la responsabilità del suicidio della moglie. Il dottor Cemal, dal volto plumbeo, scioglie la sua lingua verso la fine del film e nega, senza convinzione con un secco no, che il morto ammazzato sia stato sotterrato vivo. Alle figure femminili Nuri Bilge Ceylan restituisce una dignità composta, com’è per la moglie dell’uomo ammazzato, dallo sguardo accusatore, una consapevolezza d’impotenza, un’accettazione di un fatto accaduto, una perdita ormai irrimediabile. Il cinema di Nuri Bilge Ceylan apre al confronto, alla relazione per la specificità dei contenuti narrati, per la veridicità della rappresentazione dei luoghi e la concettualizzazione dei personaggi collocati nelle loro particolari relazioni spazio-temporali. Così come è stato per “Le tre scimmie”, siamo in pieno cinema interculturale, caratterizzato da un considerevole grado di reciprocità grazie ad un processo mediatico rappresentativo di una cultura “altra”, come è in questo specifico contesto filmico la cultura turca. Il cinema di Bilge Ceylan indaga e racconta le abitudini e le vicende della sua gente, con una polifonia di codici che caratterizzano la singolarità della sua narrazione cinematografica, che permette l’immedesimazione con i protagonisti delle vicende. Premiato al Festival di Cannes 2011, “C’era una volta in Anatolia” è un documento culturale, un validissimo messaggio per un pubblico che, fruendo mediaticamente la cultura dell’altro, comunque rimane nella consapevolezza della distanza che esiste tra film e realtà.
Giudizio*****
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gianleo67
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domenica 6 ottobre 2013
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il dolente umanesimo del cinema turco
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In una ventosa notte autunnale, sotto un cielo che minaccia tempesta, i fari accesi di tre auto della polizia setacciano i campi di una località dell'Anatolia alla ricerca di un abbeveratoio nei cui pressi sarebbe stato seppellito il corpo di un uomo che i due rei confessi dichiarano di aver ucciso poche ore prima. Il comandante della locale stazione di polizia,il procuratore ed un medico legale risolvono il caso solo all'alba, quando si profila il senso di una vicenda umana triste e dolorosa che in qualche modo incrocia le loro fallimenentari esperienze personali e familiari.
Immersi nell'estenuante e incessante sibilio del vento che spazza le colline di una sperduta landa rurale e abbacinati dal vivido realismo di una stupefacente fotografia (del misconosciuto Gökhan Tiryaki) il pluripremiato regista Nuri Bilge Ceylan, costruisce con paziente indulgenza una sorta di giallo psicologico che prende le mosse dallo squallore di un banale fattaccio di cronaca nera per trasformarsi ben presto in una sorta di psicodramma collettivo dove, nel baluginante chiaroscuro di una notte da lupi, emergono le tensioni e le dolorose vicende di personaggi alle prese con la indicibile complessità della propria esperienza umana, una lucida e straziata ricognizione nei destini personali di uomini cui tocca in sorte la responsabilità di giudicare altri uomini oltre i limiti angusti e meschini di un mero dovere burocratico.
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In una ventosa notte autunnale, sotto un cielo che minaccia tempesta, i fari accesi di tre auto della polizia setacciano i campi di una località dell'Anatolia alla ricerca di un abbeveratoio nei cui pressi sarebbe stato seppellito il corpo di un uomo che i due rei confessi dichiarano di aver ucciso poche ore prima. Il comandante della locale stazione di polizia,il procuratore ed un medico legale risolvono il caso solo all'alba, quando si profila il senso di una vicenda umana triste e dolorosa che in qualche modo incrocia le loro fallimenentari esperienze personali e familiari.
Immersi nell'estenuante e incessante sibilio del vento che spazza le colline di una sperduta landa rurale e abbacinati dal vivido realismo di una stupefacente fotografia (del misconosciuto Gökhan Tiryaki) il pluripremiato regista Nuri Bilge Ceylan, costruisce con paziente indulgenza una sorta di giallo psicologico che prende le mosse dallo squallore di un banale fattaccio di cronaca nera per trasformarsi ben presto in una sorta di psicodramma collettivo dove, nel baluginante chiaroscuro di una notte da lupi, emergono le tensioni e le dolorose vicende di personaggi alle prese con la indicibile complessità della propria esperienza umana, una lucida e straziata ricognizione nei destini personali di uomini cui tocca in sorte la responsabilità di giudicare altri uomini oltre i limiti angusti e meschini di un mero dovere burocratico. Grazie allo stile personale che da sempre costituisce la cifra di un linguaggio intriso di una profonda umanità, il regista turco ci conduce in una sorta di viaggio 'metafisico' attraverso le steppe dell'Anatolia, nel non luogo senza tempo di una arcaica modernità, alla ricerca di un cadavere e del senso perduto dell'esistenza dove i destini di vittima , carnefici e inquisitori finiscono per incrociarsi nel 'cerchio rosso' di una ineluttabile convergenza, nel tragico determinismo 'Melvilliano'di un insinuante disincanto, trasfigurando così l'apparente banalità del soggetto nella suggestiva cornice di una elegante affabulazione. Questo livello 'simbolico' della narrazione si addentra nella furia degli elementi come lungo il tortuoso cammino dell'uomo di fronte alla crudeltà ed alla fragilità della propria natura (l'assassino piange nel guardare incantato il viso angelico della creatura che gli porge da bere: uno struggimento per la bellezza del mondo che lui ha tradito; il medico indulge in una 'diagnosi' favorevole al carnefice pensando al destino di un figlio senza padre). Penetrante e complesso anche dal punto di vista psicologico vive di uno straziato dualismo tra passato e presente, nel segno di una difficile continuità anagrafica (tra paternità mancata e surrogata), nel tema della colpa lungo il terreno scivoloso di una responsabilità personale verso se stessi e verso l'altro, nel maturo disincanto di un destino crudele e inane. Forse un pò irrisolto nelle eleganti sfumature del sottotesto è comunque un film notevole e di sicuro l'opera migliore del regista turco. Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.
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tom87
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giovedì 14 marzo 2013
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un'amara allegoria dell'attuale turchia
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Era dai tempi di “Uzak” che non ancora si rivedeva un’opera così potente e rarefatta. Per più di due ore non accade quasi nulla in fatto di trama (le azioni sono sempre le stesse, ripetitive ma emblematiche), ma tanto in fatto di interiorità psicologica dei singoli personaggi. Potremmo dire che la storia di questo anomalo giallo sia stata genialmente presa a pretesto per raccontare ciò che succede nei meandri dell’animo umano; come se la vera indagine dovesse essere quella noir dell’umana natura, dei volti e dei corpi dei personaggi, e non piuttosto dell’oggetto della trama.
Tre auto vagano nel cuore della notte sulle colline dell’Anatolia.
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Era dai tempi di “Uzak” che non ancora si rivedeva un’opera così potente e rarefatta. Per più di due ore non accade quasi nulla in fatto di trama (le azioni sono sempre le stesse, ripetitive ma emblematiche), ma tanto in fatto di interiorità psicologica dei singoli personaggi. Potremmo dire che la storia di questo anomalo giallo sia stata genialmente presa a pretesto per raccontare ciò che succede nei meandri dell’animo umano; come se la vera indagine dovesse essere quella noir dell’umana natura, dei volti e dei corpi dei personaggi, e non piuttosto dell’oggetto della trama.
Tre auto vagano nel cuore della notte sulle colline dell’Anatolia. A bordo ci sono un medico, un commissario, un procuratore, alcuni poliziotti, un assassino e il fratello. Devono ritrovare il cadavere di un uomo assassinato. Purtroppo l’omicida racconta che era ubriaco e non riesce a ricordare dove lui e il fratello abbiano sepolto la vittima. La ricerca continuerà fino all’alba, quando finalmente la salma sarà ritrovata e ogni cosa troverà una spiegazione. Coinvolgono questi uomini che cercano, avanzano, discutono, si fermano, riprendono il cammino. E’ bastata questa semplice trama, tesa e intrigante, un gruppo di bravissimi attori, la magnifica fotografia, i travolgenti paesaggi, gli espressivi primi piani, e ancora, la dilatazione dei tempi, l’incisività della regia, l’inquietudine delle tenebre, i lunghi dialoghi serrati e cechoviani, a far si che quest’opera diventasse un capolavoro premiato a Cannes con il Gran Premio della Giuria, e una pellicola necessaria e importante.
In una messa in scena intimistica; caratterizzata da una Natura maestosa, selvaggia e indifferente che schiaccia i personaggi ma ne riflette anche i loro stati mentali; il regista turco espone un suggestivo affresco politico-etnografico per riflettere su che cosa resta della Turchia di oggi. Una Turchia senza più punti di riferimento e immersa in orrori quotidiani, divisa fra tradizione e globalizzazione; smarrita in una condizione di avanzamento statico e incerto. I tre uomini ne simboleggiano la legge, la scienza e l’ordine in preda a confusioni e fragilità; l’assassino ne simboleggia il passato violento e il morto introvabile la sua conseguenza. Attraverso i dialoghi e le relazioni tra i personaggi, i ricordi e i gesti di ognuno di loro (emozionante la sequenza in cui gli uomini si fermano ad ammirare la bellezza, intravista e illuminata dalla fioca luce di una candela, della figlia del sindaco di un villaggio) il regista descrive il lento e faticoso cammino sociale della Turchia. Il girovagare a vuoto dei personaggi diventa l’allegoria di questo paese, sospeso tra il buio e la luce, tra il bisogno di un ordine e una chiarezza e il tormento di una solitudine privata di morale e sentimento.
Sotto questo aspetto il film è interessante e doloroso, ma anche vitale, perché nel descrivere i limiti esistenziali e umani (raffigurati metaforicamente sia da un’Anatolia sempre identica nel suo arido paesaggio, sia dal sentimento di rassegnazione e stanchezza dei personaggi) il regista non lascia solo disperazione. Nel suo rigore morale lancia anche un invito alla speranza. L’uomo non deve arrendersi, non deve cedere al buio di una notte che non fa distinguere e capire nulla, ma deve costantemente continuare la ricerca. E’ l’unico modo per poter sperare di arrivare ad una piena coscienza di sé e far luce su molte cose di questo mondo…
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pensierocivile
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mercoledì 13 marzo 2013
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il protagonismo dell'autore
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La storia è di una semplicità naturale, la resa non semplice. Seppure il racconto possa snodarsi con la giusta leggerezza e il giusto rispetto per la narrazione Nuri Bilge Ceylan sceglie di mettere davanti a tutto l'autorialità, la colta presenza dell'intellettuale, stroncando ogni possibile respiro. Chiacchiere, dialoghi infiniti, metafore assortite, lentezza riflessiva: tutto l'armamentario dell' autore che marca la sua presenza. A volte insopportabile, a volte feroce come nel rimprovero "così non entriamo in Europa", o nel dover disporre il cadavere nel bagagliaio dell'auto; a volte discepolo della poesia, negli occhi del dottore che vede il ragazzino giocare a calcio.
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La storia è di una semplicità naturale, la resa non semplice. Seppure il racconto possa snodarsi con la giusta leggerezza e il giusto rispetto per la narrazione Nuri Bilge Ceylan sceglie di mettere davanti a tutto l'autorialità, la colta presenza dell'intellettuale, stroncando ogni possibile respiro. Chiacchiere, dialoghi infiniti, metafore assortite, lentezza riflessiva: tutto l'armamentario dell' autore che marca la sua presenza. A volte insopportabile, a volte feroce come nel rimprovero "così non entriamo in Europa", o nel dover disporre il cadavere nel bagagliaio dell'auto; a volte discepolo della poesia, negli occhi del dottore che vede il ragazzino giocare a calcio. Tutte le contraddizioni di una terra buia pronta al risveglio, paesaggi senza fine e un popolo in cerca di identità, nel film c'è tutto, in un tempo infinito.
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stefanoadm
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martedì 22 gennaio 2013
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l'insostenibile lentezza di ceylan
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Bastano alcune straordinarie sequenze a giustificare tutto ciò? Bastano i bagliori rurali di un fuoco notturno, i paesaggi fascinosi di una campagna che non ti aspetti, le chiacchiere che costruiscono storie "per sovrapposizione" o il vagare kafkiane di auto e uomini stanchi a fare di "C'era una volta in Anatolia" ciò che vorrebbe essere? Semplicemente no. Un film, purtroppo o per fortuna, purtroppo e perfortuna, non è un romanzo.
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filippo catani
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martedì 14 agosto 2012
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tre uomini toccati dal dolore
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Nella provincia anatolica un gruppo di poliziotti capitanati da un commissario, il procuratore e con l'ausilio del medico legale cercheranno di fare luce su un omicidio. Gli uomini dovranno prima affrontare un lungo viaggio con l'autore del crimine per trovare il cadavere. Sarà questa l'occasione per i tre di soffermarsi sulle sofferenze che provano.
Il film del turco Ceylan è veramente per coloro che amano un certo genere di cinema: ritmo molto lento, grandi silenzi, numerosi paesaggi e grandi riflessioni esistenziali e introspettive. In poche parole non ci troviamo certo davanti a un thriller come siamo abituati solitamente a definirlo in quanto, con l'avanzare della pellicola, il risolvere il caso lascia spazio alle riflessioni di cui si accennava in precedenza.
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Nella provincia anatolica un gruppo di poliziotti capitanati da un commissario, il procuratore e con l'ausilio del medico legale cercheranno di fare luce su un omicidio. Gli uomini dovranno prima affrontare un lungo viaggio con l'autore del crimine per trovare il cadavere. Sarà questa l'occasione per i tre di soffermarsi sulle sofferenze che provano.
Il film del turco Ceylan è veramente per coloro che amano un certo genere di cinema: ritmo molto lento, grandi silenzi, numerosi paesaggi e grandi riflessioni esistenziali e introspettive. In poche parole non ci troviamo certo davanti a un thriller come siamo abituati solitamente a definirlo in quanto, con l'avanzare della pellicola, il risolvere il caso lascia spazio alle riflessioni di cui si accennava in precedenza. Il commissario mette anima e corpo nel lavoro perchè è troppo il dolore di stare a casa e vedere il figlio malato. Lui e la moglie infatti, per sua stessa ammissione, si chiedono spesso perchè proprio loro siano stati toccati da una simile disgrazia. Anche il procuratore è assillato da un vecchio caso di cui metterà a conoscenza il medico che piano piano lo aiuterà a mettere in luce quanto già in cuor suo il procuratore sapeva ma che voleva negarsi. Ma anche il dottore stesso vive di tormenti e rimorsi tanto che ha deciso di lasciare la città per trasferirsi nella remota provincia. In tutto questo si vede la situazione di poveri villaggi alle prese con la mancanza di elettricità e dalla povertà. Non manca però qualche tocco d'ironia specie grazie ad un pedante gendarme la cui unica preoccupazione è quella di sapere i confini dei vari comuni e giurisdizioni. Certo si arriva alla fine un po' provati ma ne vale davvero la pena.
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gianmarco.diroma
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domenica 5 agosto 2012
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venedik de bir zamanlar
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Chissà se il traduttore di Google funziona. Once upon a time in Venice. C'era una volta a Venezia. Una condizione di privilegio, quella di vivere a Venezia, che forse non permette di comprendere però il valore di questo film amato da un'orda di critici: perché vivendo a Venezia, una città dove le storie e le leggende sono scritte sui muri, dove la densità di storie e leggende per metro quadrato è decisamente alta (ed è questa forse la principale differenza tra Venezia e l'Anatolia raccontata da Nuri Bilge Ceylan: lì le storie o la storia viaggiano orizzontalmente lungo paesaggi senza fine, come se si avesse a che fare con la stesura (non la maturazione!) dell'impasto di una pizza napoletana per ben 150 minuti, mentre qui, le storie, corrono sui muri, salgono sù per i palazzi e poi scendono giù, lungo le calli e le fondamenta, e se vogliono prendere il largo, c'è bisogno dell'acqua della Laguna e poi di quella del mare, sempre che non si voglia prendere una boccata di "Libertà" attraversando l'omonimo ponte), diventa difficile abituarsi alla lentezza di questo "capolavoro" contemporaneo della cinematografia turca.
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Chissà se il traduttore di Google funziona. Once upon a time in Venice. C'era una volta a Venezia. Una condizione di privilegio, quella di vivere a Venezia, che forse non permette di comprendere però il valore di questo film amato da un'orda di critici: perché vivendo a Venezia, una città dove le storie e le leggende sono scritte sui muri, dove la densità di storie e leggende per metro quadrato è decisamente alta (ed è questa forse la principale differenza tra Venezia e l'Anatolia raccontata da Nuri Bilge Ceylan: lì le storie o la storia viaggiano orizzontalmente lungo paesaggi senza fine, come se si avesse a che fare con la stesura (non la maturazione!) dell'impasto di una pizza napoletana per ben 150 minuti, mentre qui, le storie, corrono sui muri, salgono sù per i palazzi e poi scendono giù, lungo le calli e le fondamenta, e se vogliono prendere il largo, c'è bisogno dell'acqua della Laguna e poi di quella del mare, sempre che non si voglia prendere una boccata di "Libertà" attraversando l'omonimo ponte), diventa difficile abituarsi alla lentezza di questo "capolavoro" contemporaneo della cinematografia turca. Ripeto: sarà colpa di Venezia. Anche qui esiste la lentezza. La velocità corre sulle barche e insieme a chi le ha e a chi le guida. Per il resto, si va a piedi. Ponte dopo ponte, calle dopo calle, fondamenta dopo fondamenta. La lentezza permette di guardare, permette di conoscere, permette di perdersi nella contemplazione (l'otium). Ma a Venezia la conoscenza, la contemplazione si stemperano nel pettegolezzo, la moneta forse più diffusa in una città dove ci si incontra e ci si perde per caso. L'ergonomia tutto sommato a Venezia ha un potere limitato. Non c'è ne tanto bisogno. Perché di tanta tecnologia infondo non ce n'è. Poche pose innaturali, come lo stare inscatolato dentro un automobile. Quindi pochi studi a riguardo. Ed in questa dimensione di privilegio, ci si rende conto di come C'era una volta in Anatolia sia un film sbagliato: ma non sbagliato perché è noioso, troppo lungo, verboso... no! Sbagliato perché se si pone come punto di partenza, come postulato e/o assioma una verità sostenuta (e non "Rivelata") la teoria citata dal Mereghetti per la critica di Casablanca, con la quale, citando nientepopodimeno Umberto Eco, nella quale si dice grossomodo che se 2 o 3 luoghi comuni in un film danno come risultato degli stereotipi, mentre in un film frutto di una sequenza continua di stereotipi il risultato potrebbe essere il mito (ovvero Casablanca e/o Gilda), "donc" guardando "Bir zamanlar Anadolu'da", un film dove più che l'Anatolia, si vedono una serie di persone che l'attraversano, dove più che una terra, si vedono delle persone attraversarla in macchina questa terra, un film dove del mito dell'Anatolia non c'è nulla (mentre Bogart e la Bergman erano miti del cinema e nel cinema come tutti gli attori capaci di essere veramente carne del verbo di un regista e/o di una produzione cinematografica), ecco che qui di mito non ce n'è! Perché di"frasi ad effetto" se ne sentono un'infinità lungo tutto il corso del film. Ma nemmeno una sentita. Nemmeno una vissuta. Frasi dette. Parole vuote! Forse parole e frasi che "pur non mancando di naturalezza, mancano sicuramente di natura"! E vivendo a Venezia, una città che si è fatta storia e leggenda essa stessa, diventa insopportabile resistere al sonno di fronte ad un film dove la "testa" (ovvero il racconto), ha preso il sopravvento sulla materia narrata (ovvero il corpo).
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