Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 170 min.
- Italia, Francia 2010.
- 01 Distribution
uscita venerdì 12novembre 2010.
MYMONETRONoi credevamo
valutazione media:
3,23
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Una ricostruzione coraggiosa con qualche trasposizione illuminante, come l'inusitata presenza dei piloni di cemento armato di una costruzione abusiva che sovrasta improvvisamente la scena (in Calabria), dove i patrioti si illudevano d fare l'Italia. Oppure la rappresentazione di un Mazzini già vecchio, quando aveva soltanto 25 anni ed era certamente mal consigliato da quel Crispi, che da gran faccendiere qual era (curiosa la sua somiglianza con Calvi), si apprestava a mettere le mani sulla nascente Italia. Gli intrighi internazionali, l'opera delle massonerie, d'altra parte, nel film fanno la parte del leone, tanto che non è esagerato affermare che le scene girate tra Ginevra, Parigi e soprattutto Londra sovrastano quasi quelle girate in Italia.
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Una ricostruzione coraggiosa con qualche trasposizione illuminante, come l'inusitata presenza dei piloni di cemento armato di una costruzione abusiva che sovrasta improvvisamente la scena (in Calabria), dove i patrioti si illudevano d fare l'Italia. Oppure la rappresentazione di un Mazzini già vecchio, quando aveva soltanto 25 anni ed era certamente mal consigliato da quel Crispi, che da gran faccendiere qual era (curiosa la sua somiglianza con Calvi), si apprestava a mettere le mani sulla nascente Italia. Gli intrighi internazionali, l'opera delle massonerie, d'altra parte, nel film fanno la parte del leone, tanto che non è esagerato affermare che le scene girate tra Ginevra, Parigi e soprattutto Londra sovrastano quasi quelle girate in Italia. In questa filologica ricostruzione spiccano le assenze di Cavour e Garibaldi. Il primo è soltanto citato, mentre del secondo se ne vede soltanto una volta la figura in controluce quando appare come una visione, quasi un fantasma, in sella al suo cavallo, dall'alto della montagna a rassicurare i suoi già smarriti garibaldini poco prima della battaglia (o meglio dell'agguato) dell'Aspromonte. E' difficile dire se il regista con queste assenze abbia voluto esprimere o meno un implicito giudizio di condanna morale su queste due icone del nostro Risorgimento, ma tutto lascia credere che sia così. In definitiva un film importante, anche inquietante, più per le allusioni che per le affermazioni,e che certamente accenderà il dibattito sulle interpretazioni storiche e politiche, sempre che sia sostenuto da un'adeguata distribuzione nelle sale. [-]
L'argomento viene affrrontato con serietà e con precisione tuttavia troppo lunghi i dialoghi, troppe parole rispetto alle immagini. La narrazione non è lineare , alle volte elittica e quindi di non facile comprensione. Presuppone già nello spettatore una non superficiale conoscenza degli eventi. Apprezzabile la sottolineatura di analogie con la situazione politica odierna che induce tuttavia un senso di scoraggiamento,rispetto alla possibilità di un inversione di rotta in senso virtuoso. Interessante invece scoprire che il Sud non sembra aver guadagnato molto dalla unificazione con il Nord con buona pace della Lega. Un approccio più divulgativo forse avrebbe giovato alla popolarità della pellicola che temo resterà limitata alle solite elite che già sanno.
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Martone s’immerge in un trentennio dell’‘800 italiano,il più convulso e problematico,fonte di innumerevoli analisi, controversie,agiografie e revisioni, il tempo del “Qui si fa l’Italia o si muore”,e si chiede quale Italia sia stata fatta.
E’ infatti evidente che riprendere oggi un simile argomento non può essere frutto di esclusivo interesse documentario per una ricostruzione storica,la prospettiva è sufficientemente distante per permettere una di quelle incursioni nel passato che tanto bene aiutano a capire il presente.
Il pretesto narrativo è fornito dal romanzo di Anna Banti, liberamente ridotto nel plot ma ben presente nello spirito che anima lo sviluppo dei quattro tempi del racconto,La scelta, Domenico, Angelo e L’alba della nuova era.
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Martone s’immerge in un trentennio dell’‘800 italiano,il più convulso e problematico,fonte di innumerevoli analisi, controversie,agiografie e revisioni, il tempo del “Qui si fa l’Italia o si muore”,e si chiede quale Italia sia stata fatta.
E’ infatti evidente che riprendere oggi un simile argomento non può essere frutto di esclusivo interesse documentario per una ricostruzione storica,la prospettiva è sufficientemente distante per permettere una di quelle incursioni nel passato che tanto bene aiutano a capire il presente.
Il pretesto narrativo è fornito dal romanzo di Anna Banti, liberamente ridotto nel plot ma ben presente nello spirito che anima lo sviluppo dei quattro tempi del racconto,La scelta, Domenico, Angelo e L’alba della nuova era.
Ai protagonisti,tre amici di un piccolo paese del Sud,Angelo, Domenico e Salvatore,coinvolti nel progetto rivoluzionario della Giovane Italia di Mazzini,si affiancano personaggi con nomi noti o figure di fantasia,in una fusione di realtà e finzione difficile da reggere con equilibrio sempre perfetto,ed infatti è questo il limite del film,peraltro di buon respiro epico e cura formale.
Nell’affollarsi degli eventi e nello sforzo necessario per conciliare il dato storico con l’elaborazione fantastica di pertinenza dell’opera d’arte,alcuni snodi nella vicenda e passaggi temporali risultano oscuri,ardui da mettere a fuoco,si verificano spesso momentanei black out comunicativi .
In genere sono i personaggi storici quelli meno riusciti,Crispi, Orsini e la Belgioioso hanno un che di meccanico,di irrisolto, quasi una presenza posticcia, Mazzini interpretato da Servillo resta sullo sfondo molto defilato,Garibaldi è un’ombra a cavallo sulla vetta del colle di notte in una scena suggestiva,ma un po’ troppo,si sfiora il melodramma.
Su altri piani di analisi il film è egregio,la scenografia perfetta nella ricostruzione ambientale (anche i pali in cemento armato che ci rigettano al presente con intento provocatorio sono giocati al momento giusto), la fotografia è magnifica,l’’800 pittorico è tutto davanti ai nostri occhi,da Fattori a Segantini e ai Macchiaioli, passando per Manet,il cui Déjeuner sur l’herbe manca solo del nudo femminile al centro nel quadro in cui passa Felice Orsini che medita attentati sulla riva della Senna.
Lo Cascio dà un’ottima prova nella parte di Domenico,fil rouge della lunga storia in cui entra nella fase della maturità,quando stanno sfumando tutte le idealità giovanili e gli intrecci della politica,con gli intrighi che ne fanno parte,segnano tappe dolorose lungo le quali la fatica più titanica è mantenere la giusta distanza e l’equilibrio.
Domenico riesce fino all’ultimo a sentirsi vivo e partecipe,e la bravura di Lo Cascio è far percepire quanto questo sia difficile.
Le tare ataviche di quel "volgo disperso che nome non ha",ben focalizzato da Manzoni quando ancora tutto doveva accadere,ci sono tutte in un film che registra quello che poi è stato,e quel Parlamento vuoto sul finale,con Crispi che parla stentoreo agli scranni vuoti,è un’allegoria troppo triste nella sua capacità evocativa.
L’Orchestra della Rai nell'Auditorium di Torino diretta da Roberto Abbado ha inciso una colonna sonora raffinata nelle scelte dal repertorio orchestrale ottocentesco,con brani d’opera al di fuori delle piste battute di solito, Martone ha voluto una direzione originale,che esprimesse con assoluta adesione lo spirito delle singole scene.Il risultato è eccellente,una delle parti migliori del film
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[+] alta qualità (di angelo umana)[ - ] alta qualità
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Noi credevamo “ è un film potente e anche coraggioso, nonostante una forma algida e poco “ melodrammatica “, ma dobbiamo anche dire che se c’è una colpa questa è nella sceneggiatura. Perché un ‘ operazione culturale ‘ del genere, in un’epoca di questo genere, richiederebbe un’attenzione maggiore, anche maniacale: Visconti si serviva di scrittori come Suso Cecchi d'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa o Giorgio Bassani; Martone si serve solo di Giancarlo De Cataldo, uno scrittore legato a “ Romanzo criminale “ e a pochissime sceneggiature di gruppo, forse con un’esperienza e una professionalità non sufficiente per uno script di tale complessità epica, culturale e storica.
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Noi credevamo “ è un film potente e anche coraggioso, nonostante una forma algida e poco “ melodrammatica “, ma dobbiamo anche dire che se c’è una colpa questa è nella sceneggiatura. Perché un ‘ operazione culturale ‘ del genere, in un’epoca di questo genere, richiederebbe un’attenzione maggiore, anche maniacale: Visconti si serviva di scrittori come Suso Cecchi d'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa o Giorgio Bassani; Martone si serve solo di Giancarlo De Cataldo, uno scrittore legato a “ Romanzo criminale “ e a pochissime sceneggiature di gruppo, forse con un’esperienza e una professionalità non sufficiente per uno script di tale complessità epica, culturale e storica. A quanto pare Martone si è voluto caricare sulle spalle l’Epica della nostra Storia ed ha effettivamente rischiato in alcuni passaggi solo un esercizio di stile, se non di creare ‘ la meglio gioventù ‘ dei nostri bisnonni. La sceneggiatura è stata costruita sulla falsa riga di “ Rocco e i suoi fratelli “: un’introduzione ( la più confusa e lenta, che un montaggio più coraggioso avrebbe snellito e forse emotivamente più coinvolto lo spettatore ), i tre atti divisi sui tre protagonisti e il finale ( la parte più forte del film, più emotiva, più politica, più chiara e anche più teatrale ). Altra scelta stilistica interessante ( ma non nuovissima ) è la ‘ marginalità ‘ dei tre protagonisti nella storia; lottano, pagano dei prezzi alti come il carcere o la morte, sono a breve contatto con Mazzini o Garibaldi, ma non condizionano o indirizzano la Storia.
I tre giovani reagiscono alla repressione borbonica del 1828 giurando fedeltà alla Giovine Italia e agli ideali repubblicani e democratici di Mazzini.
In una girandola di trasferimenti i tre passano tra Torino e Parigi, il sud Italia e Ginevra. Il primo, ripetuto e un po’ confuso temporalmente destino è giungere presso l’affascinante, sensuale e lucida politicamente Cristina Belgioioso che vive in esilio a Parigi dopo essere stata bandita dalla Lombardia. I tre amici partecipano o assistono al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all'insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questa delusione porterà i tre amici fraterni a prendere strade diverse e a creare una frattura irrimediabile. A questo punto partono i tre ‘ blocchi ‘ narrativi che riguardano i tre amici. Ma sarà con lo sguardo di Domenico che noi spettatori osserveremo l’evoluzione e il tradimento della lotta mazziniana e del cambiamento di ‘epoca’: se il giovane prende coscienza grazie alla repressione criminale delle truppe borboniche, perderà la speranza dopo decenni quando vedrà sempre i contadini uccisi e maltrattati dall’esercito piemontese e urlerà per la prima volta disperato quando un ufficiale piemontese farà fucilare dei garibaldini. In tutto questo c’è un Mazzini ieratico e distante, un Garibaldi lontano, un Filippo Orsini che prepara il complotto contro Napoleone III, la “follia” di Angelo, il carcere di Domenico assieme a Carlo Poerio, un Crispi concreto e complottatore “politico”. Su tutto questo lo scontro tra repubblicani democratici e monarchici.
“ Noi credavamo “ è diretto con sicurezza e ci regala alcuni momenti molto belli, alcune scene corali sono efficaci anche se l’autore è troppo interessato a rendere cinematografico il suo pensiero e le sue idee, mentre come regia prevale un’idea più teatrale e quando la manifesta chiaramente sembra più compatto e coinvolgente.
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Il film tenta di dare qualche informazione diversa da quelle solitamente propinate nei film che hanno per oggetto la storia italiana, nella parte 4 si accenna di volata all'industrializzazione del sud, cancellata violentemente dalla conquista piemontese... per il resto è da apprezzare, di questi tempi, la rappresentazione non agiografica dei vari mazzini, crispi e compagnia bella, e la rappresentazione del parlamento sabaudo come ricovero di opportunisti e profittatori (dal quale deriva pari pari il parlamento italiano savoiardo e poi repubblicano, ovviamente)... I mali dell'Italia derivano tutti dal modo in cui questo paese fu messo insieme.
Le prime tre parti piuttosto prolisse, francamente, si sarebbero potute ridurre ad una, mentre la quarta parte è piuttosto superficiale.
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Il film tenta di dare qualche informazione diversa da quelle solitamente propinate nei film che hanno per oggetto la storia italiana, nella parte 4 si accenna di volata all'industrializzazione del sud, cancellata violentemente dalla conquista piemontese... per il resto è da apprezzare, di questi tempi, la rappresentazione non agiografica dei vari mazzini, crispi e compagnia bella, e la rappresentazione del parlamento sabaudo come ricovero di opportunisti e profittatori (dal quale deriva pari pari il parlamento italiano savoiardo e poi repubblicano, ovviamente)... I mali dell'Italia derivano tutti dal modo in cui questo paese fu messo insieme.
Le prime tre parti piuttosto prolisse, francamente, si sarebbero potute ridurre ad una, mentre la quarta parte è piuttosto superficiale. La casa di cemento armato, incompiuta, come le tante iniziate e portate avanti durante le vacanze dagli emigrati in Calabria forse voleva mettere in "contatto" le promesse risorgimentali con la realtà che ne seguí (sostanzialmente l'emigrazione), piú difficile forse spiegare le scale di acciao in Francia nel 1859 e il fatto che per un coltello si dovesse andare da Torino in Svizzera (forse anche allora erano famosi i coltelli svizzeri?) ;-)
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Il film è piuttosto lungo, forse troppo vista anche la tortuosità della sceneggiatura. Ho faticato a seguire le trame degli eventi storici in un film come questo dove molto (forse troppo) è stato caricato sui dialoghi. D’accordo che è la nostra storia ma il cinema è più vicino alla letteratura che ad un saggio. Voglio dire che va benissimo fare un film storico ma il cinema ha regole diverse da un libro di storia: ci sono le immagini, le vicende umane, le microstorie e le invenzioni letterarie dello sceneggiatore e del regista. Martone ha cercato giustamente con le figure di Angelo e Domenico un pretesto per attraversare l’epoca del risorgimento ma purtroppo ho l’impressione che altre cose non abbiano funzionato: forse i dialoghi complessi ed il ritmo troppo serrato.
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Il film è piuttosto lungo, forse troppo vista anche la tortuosità della sceneggiatura. Ho faticato a seguire le trame degli eventi storici in un film come questo dove molto (forse troppo) è stato caricato sui dialoghi. D’accordo che è la nostra storia ma il cinema è più vicino alla letteratura che ad un saggio. Voglio dire che va benissimo fare un film storico ma il cinema ha regole diverse da un libro di storia: ci sono le immagini, le vicende umane, le microstorie e le invenzioni letterarie dello sceneggiatore e del regista. Martone ha cercato giustamente con le figure di Angelo e Domenico un pretesto per attraversare l’epoca del risorgimento ma purtroppo ho l’impressione che altre cose non abbiano funzionato: forse i dialoghi complessi ed il ritmo troppo serrato. La lunghezza di un film soprattutto se di ambientazione storica è normale, ma forse occorre un respiro più ampio nel ritmo della narrazione. Faccio un paragone certamente smisurato, ma chi ha visto Barry Lyndon sa bene che la lunghezza e l’argomento storico, opportunamente trattati, possono essere una gioia per l’anima. In Noi credevamo ci sono molti bravi attori ma tra tutti devo assolutamente rendere un doveroso omaggio a Valerio Binasco (Angelo): la sua interpretazione è stata notevolissima. Per me è stata una grande sorpresa. E’ un attore di grandi qualità, spero di vederlo in altre occasioni. Sempre bravo Lo Cascio anche se qui brilla meno. Opaca e monocorde invece l’interpretazione di Servillo.
La fotografia ha avuto buone idee ma non sempre l’esposizione mi è sembrata corretta. Una piccola cosa: avrei apprezzato un maggior impegno sul trucco. Questo film è partito da un’idea certamente difficile da trattare. Interessante l’idea di focalizzarsi sulla doppia anima repubblicano-monarchica del risorgimento, ma la macchina filmica di Noi Credevamo mi è parsa piuttosto riottosa a trasportare con partecipazione chi lo guarda in sala. Ho avuto anche l’impressione che tutto sommato questo film sia più adatto ad essere diviso in quattro parti e mandato in tv piuttosto che tutto assieme e al cinema.
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Esiste, forse, la convinzione che più per le lunghe si porti un'opera, tanto più essa apparirà importante e preziosa? Forse perché questo film doveva nascere come un'opera televisiva. E poi la si è convertita, con risultati a mio giudizio modesti e con conseguenze non succedanee su un prolungamento eccessivo della durata (tagli corposi avrebbero giovato...), a opera cinematografica. Beninteso, la pellicola affronta senza dubbio temi importati, che riguardano la storia comune, la genesi del nostro stato, discostandosi da quella cinematografia di genere, di massima romanzata, che avrebbe dato un taglio meno analitico e storiografico di quello che ha voluto dare martone.
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Esiste, forse, la convinzione che più per le lunghe si porti un'opera, tanto più essa apparirà importante e preziosa? Forse perché questo film doveva nascere come un'opera televisiva. E poi la si è convertita, con risultati a mio giudizio modesti e con conseguenze non succedanee su un prolungamento eccessivo della durata (tagli corposi avrebbero giovato...), a opera cinematografica. Beninteso, la pellicola affronta senza dubbio temi importati, che riguardano la storia comune, la genesi del nostro stato, discostandosi da quella cinematografia di genere, di massima romanzata, che avrebbe dato un taglio meno analitico e storiografico di quello che ha voluto dare martone. Tuttavia, l'opera rimane a metà e ci consegna la persuasione che si sia persa una buona occasione per fare un appettibile, ma dignitoso, tentativo di celebrare in modo didascalico il risorgimento. Si sarebbe potuta fare della pedagogia, non a buon mercato, ma più accessibile per far breccia, anche, in un pubblico giovane magari con una sceneggiatura (e un baget) più congrui. Tutto questo non è stato fatto e Noi Credevamo è destinato a rimanere un opera di nicchia per un pubblico di mezza età o ultrasessantacinquenne. E' possibile che il film avrà più successo in tivù, ma rimane la delusione della constatazione di una tendenza, tutta italiana, alla mancanza di progettualità anche in campo cinematografico. Un impegno maggiore, che sarebbe potuto provenire anche dallo stato, nella costuzione di qualcosa di ben più ampio respiro, avrebbe regalato alla rievocazione dell'anniversario dell'unità d'Italia un prodotto ben più identitario, accattivante e celebrativo della nostra storia. [-]
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Il disorientamento che lo spettatore prova di fronte all'ultimo lavoro di Mario Martone non è data solo dalla lunghezza della pellicola: sono infiniti infatti i casi di film estremamente lunghi capaci comunque di tenere incollato il pubblico anche per più di tre ore. Per quel che riguarda solo ed esclusivamente la struttura ad episodi mi viene in mente il classico Rocco e i suoi fratelli, capace, attraverso le vicende di una famiglia del sud trapiantata nella Milano del boom, di raccontare il dolore dello sradicamento e il dissolversi progressivo delle proprie radici. In quel caso la durata del film accentuava in maniera ancora più marcata la forza del film di Luchino Visconti, capace di assurgere a vera e propria dimensione di mito (per la portata tragica della vicenda che racconta); qui invece, i 170 minuti di film non fanno che mettere in risalto come il film manchi di un perno attorno al quale annidare il suo centro, disperdendo il senso di qualsiasi dramma, smorzato dal ripetersi costante per tutto il film del solito schema: la morte di Salvatore nel prima parte, la prigionia di Domenico nella seconda, la morte di Angelo nella terza, la morte del figlio di Salvatore nella quarta, che sanciscono in ogni episodio il crollo dell'utopia risorgimentale.
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Il disorientamento che lo spettatore prova di fronte all'ultimo lavoro di Mario Martone non è data solo dalla lunghezza della pellicola: sono infiniti infatti i casi di film estremamente lunghi capaci comunque di tenere incollato il pubblico anche per più di tre ore. Per quel che riguarda solo ed esclusivamente la struttura ad episodi mi viene in mente il classico Rocco e i suoi fratelli, capace, attraverso le vicende di una famiglia del sud trapiantata nella Milano del boom, di raccontare il dolore dello sradicamento e il dissolversi progressivo delle proprie radici. In quel caso la durata del film accentuava in maniera ancora più marcata la forza del film di Luchino Visconti, capace di assurgere a vera e propria dimensione di mito (per la portata tragica della vicenda che racconta); qui invece, i 170 minuti di film non fanno che mettere in risalto come il film manchi di un perno attorno al quale annidare il suo centro, disperdendo il senso di qualsiasi dramma, smorzato dal ripetersi costante per tutto il film del solito schema: la morte di Salvatore nel prima parte, la prigionia di Domenico nella seconda, la morte di Angelo nella terza, la morte del figlio di Salvatore nella quarta, che sanciscono in ogni episodio il crollo dell'utopia risorgimentale. Manca, come succedeva proprio in Rocco e i suoi fratelli con la rivalità tra Rocco e Simone a causa dell'amore di entrambi per Nadia, la chiave del dramma, un evento chiave capace di catalizzare prepotentemente il senso del film in una precisa direzione. Se, come diceva François Truffaut, "avere un'idea sul cinema, significa avere un'idea sul mondo", qui manca completamente un'idea precisa di cosa il Risorgimento sia stato. Il Risorgimento come processo storico non viene messo a fuoco attraverso le vicende di Domenico, Angelo e Salvatore, bensì, proprio attraverso le loro avventure subisce un profondo annacquamento. Ed è proprio della passione risorgimentale che non vi è traccia alcuna, come se l'Unità d'Italia fosse stata veramente più il frutto di una serie di rocambolesche manovre politiche di cui la Francia fu tra le principali promotrici, e non il risultato di una precisa spinta rivoluzionaria proveniente dal basso (come magari sta succedendo nel Maghreb e paesi limitrofi).
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[+] disorientamento soprattutto per i giovani (di gpistoia39)[ - ] disorientamento soprattutto per i giovani
[+] risorgimento italiano (di andrea'70)[ - ] risorgimento italiano
[+] risorgimento italiano (di andrea'70)[ - ] risorgimento italiano
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Recentemente mi è capitato di vedere il primo film kolossal (sì, proprio così) italiano “La presa di Roma – 20 settembre 1870” di F. Alberini, girato nel 1905, quindi agli albori del cinema. L’opera, divisa in 7 quadri, di cui ne rimangono solo 4, durava circa 15 minuti e fu più volte proiettata lo stesso giorno della ricorrenza in Piazza Porta Pia alla presenza di ben 70.000 persone; intento dichiarato dell’autore era quello di cementare l’identità della nazione nata appena 35 anni prima ed ancora tutt’altro che consolidata. Il regista lo realizzò illustrando con dovizia di mezzi (visti i tempi) la battaglia conclusiva dell’epopea risorgimentale, la conquista dell’ultimo baluardo mancante al grande puzzle dell’unificazione, cioè Roma, roccaforte del Papato.
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Recentemente mi è capitato di vedere il primo film kolossal (sì, proprio così) italiano “La presa di Roma – 20 settembre 1870” di F. Alberini, girato nel 1905, quindi agli albori del cinema. L’opera, divisa in 7 quadri, di cui ne rimangono solo 4, durava circa 15 minuti e fu più volte proiettata lo stesso giorno della ricorrenza in Piazza Porta Pia alla presenza di ben 70.000 persone; intento dichiarato dell’autore era quello di cementare l’identità della nazione nata appena 35 anni prima ed ancora tutt’altro che consolidata. Il regista lo realizzò illustrando con dovizia di mezzi (visti i tempi) la battaglia conclusiva dell’epopea risorgimentale, la conquista dell’ultimo baluardo mancante al grande puzzle dell’unificazione, cioè Roma, roccaforte del Papato.
A distanza di un secolo, e ad un anno dal compimento del centocinquantenario della proclamata unità (in realtà nel 1861 mancavano ancora significativi pezzi di territorio al costituendo Regno d’Italia), Martone, con il sostegno della RAI, ha celebrato in anticipo l’evento a modo suo con un film lontano da ogni facile approccio convenzionale, che riporta alla luce un percorso storico sotterraneo, sepolto sotto le pagine altisonanti della Storia raccontata dai vincitori, cioè l’elite aristocratico-borghese che diresse le principali strategie e le operazioni militari tutte eroismo, martirio, ideali puri, abnegazione e ampia partecipazione popolare che abbiamo studiato sui testi scolastici . L’obiettivo finale non è dissimile da quello di Alberini, ovvero rimarcare che l’Italia, è, dovrebbe essere, vorremmo che fosse un unico ed armonico Stato dalle Alpi alla Sicilia e, attraverso la rappresentazione non solo del sangue versato ma anche delle difficoltà, i conflitti, i tradimenti, gli opportunismi, le incomprensioni e gli impedimenti di ogni sorta, ricordare che, al di là dell’unità istituzionale, esiste ancora una realtà fatta di steccati e di divisioni che rendono ancora incompiuto il progetto originario dei nostri padri dell’ottocento.
In realtà, ci dice Martone, non ci fu un solo progetto di unificazione, almeno negli specifici contenuti; durante il percorso si confrontarono repubblicani e monarchici, nordisti e meridionalisti, liberali e socialisti, aristocratici e popolari, i cui conflitti e reciproche incomprensioni ebbero altissimi costi in termini di sangue e ritardi nel conseguimento di un risultato che comunque era fortemente sentito come irrinunciabile. Ma furono soprattutto i fallimenti, che connotarono molte vicende dell’onda risorgimentale, a generare decelerazioni e quindi dubbi e scoramenti, che però non fermarono la spinta rivoluzionaria ormai inarrestabile: i primi moti repressi nel Piemonte, la sciagurata spedizione al Sud di Pisacane, l’effimera repubblica romana, l’attentato non riuscito a Parigi a Napoleone III furono tutti colpi di maglio al processo insurrezionale dovuti a scarso coordinamento, incomprensioni, visioni utopistiche, improvvisazioni autonomistiche che pesarono come macigni e rallentarono il faticoso passo della conquista. Tutto ciò è sintetizzato nella figura di Mazzini, che, pur essendo il motore propulsivo dei moti di indipendenza e di unificazione dell’Italia, è raffigurato nel tormentato travaglio di chi porta la responsabilità diretta o indiretta delle molte sconfitte subite, spesso per errori umani, e delle molte vite spezzate, fino ad arrivare a propugnare ogni soluzione, anche di tipo terroristico, pur di raggiungere lo scopo finale della lotta.
Sul piano narrativo Martone fa ricorso all’espediente, peraltro ampiamente collaudato, di descrivere la sua Storia in più capitoli attraverso le storie pluriennali di tre giovani di diversa estrazione, partendo dal Sud –quindi in senso inverso al flusso del movimento rivoluzionario- e debordando in un contesto internazionale, dove pure non mancavano fermenti innovativi e libertari, come la Francia e l’Inghilterra, terre di esuli. Nel corso delle vicende la spinta e la speranza dei protagonisti si affievoliscono, fiaccate dagli eventi sfavorevoli, diventano illusione fino ad essere stroncate dalla morte per mano amica o nemica, mentre il solo superstite, ad unificazione avvenuta, guarda al futuro, ormai vecchio e demotivato, con il suo disarmante “noi credevamo…” pieno di rimpianti. La visione di un Crispi ormai potente ministro che preannuncia una svolta conservatrice ed autoritaria ne è la disperante conferma.
L’impianto è corale, i tre giovani/adulti si mischiano tra le altre componenti sociali e seguono sorti diverse come tanti altri patrioti più o meno noti. A parte Mazzini, non compaiono i grandi eroi della tradizionale iconografia risorgimentale, non il monarchico Cavour, non il Re Vittorio Emanuele II, neanche Garibaldi se non in un’apparizione fugace ed appena delineata nei contorni. Ma abbonda il popolo di intellettuali, borghesi, picciotti, giovani ed anziani che discutono, soffrono all’arrivo di notizie sconfortanti, si confrontano sul da farsi, solidarizzano o si allontanano per sospetto o diffidenza, come nella sequenza centrale e quasi teatrale della prigionia nella fortezza borbonica. E soprattutto non capiscono: non capiscono perché l’Italia debba farsi per annessione al piccolo Piemonte , quando “al Sud ci sono territori molto più estesi” dice qualcuno; perché sia affidato al Nord, al Regno di Savoia la regia dell’intera operazione, riservandosi ai rivoluzionari meridionali il ruolo di sudditi obbedienti, ma soprattutto non capiscono perché l’esercito regolare del Nord spari sui garibaldini dopo la proclamazione del Regno unito d’Italia, come avviene nella battaglia dell’Aspromonte combattuta da cittadini dello stesso neonato Stato. Lo squilibrio Nord-Sud è quindi il tema dei temi del film, che fa da collegamento con la realtà odiena afflitta da questo come da altri problemi da allora mai risolti.
E’ singolare che nel film di Martone siano poco presenti le grandi masse popolari. Questo forse è riferibile a un dato di realtà, in quanto, almeno secondo alcuni storici, non tanto gli operai, ancora pochi, quanto le moltitudini dei contadini non parteciparono attivamente ai moti unitari. Ciò sarebbe dovuto all’altissimo tasso di analfabetismo, che rendeva tale componente sociale insensibile agli appelli patriottici (libri e libelli, Manifesti, ecc.) ed alla presunta politica classista dei Savoia verso i contadini soprattutto meridionali, esclusi dai principali processi decisionali. Il c.d. brigantaggio, in cui furono accomunati lavoratori della terra ed emarginati rivoltatisi contro il potere centrale per fame e contro i latifondisti locali, complicò le cose ed accrebbe il divario tra Nord e Sud. Il passaggio da briganti a terroni fu lungo ma, a quanto sembra, ineluttabile.
In conclusione un film potente, drammatico, dai toni forti ed anticonvenzionale, che corregge molti luoghi comuni della storia canonica di quel periodo e ne illustra aspetti poco noti; in parte didascalico, ma nel senso di fare luce su episodi importanti generalmente trascurati, come la vicenda del sanguinoso attentato all’Imperatore francese organizzato dall’ex mazziniano Felice Orsini, che ebbe enorme eco in quel Paese, con conseguenze rilevanti sia in termini di coinvolgimento popolare sia in termini di repressione antirivoluzionaria. Così pure veniamo a conoscenza della partecipazione ai moti unitari di Cristina Belgioioso, in rappresentanza delle donne patriote sul cui ruolo la storia ufficiale, a quanto ne so, tace.
Qualche difficoltà nel seguire lo snodarsi delle vicende e nella comprensione dei dialoghi in dialetto, non sempre tradotti, ed alcune forzature di raccordo con l’attualità (vedi i pilastri di case incompiuti in riva al mare) non sminuiscono comunque il valore di un’operazione celebrativa complessivamente eccellente.
Martone non ha sentito la necessità di comprendere nel racconto la presa di Roma, generalmente considerata l’atto finale del ciclo epico risorgimentale: forse per motivi di durata del film o forse perché l’avvenimento –anche se rilevante in quanto consacra la fondazione di un nuovo Stato e nel contempo ne distrugge un altro, lo Stato pontificio- non aggiunge nulla alle tesi illustrate nel corso della intera narrazione. [-]
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Il Risorgimento in formato minimalista. Poche scene esterne e prevalenza di scene di interni con altrettanto pochi personaggi che si scambiano propositi, idee, progetti, ambizioni, delusioni. Per tre quarti il film è statico e comunque paragonabile al palcoscenico di un teatro. Solo dialoghi e primi piani. La sceneggiatura sembra, lo ripeto, adatta a un lavoro teatrale più che a un film. Lo scenario politico, i fatti storici, gli scontri e le battaglie sono relegati in secondo piano, sono semplicemente riportati e raccontati verbalmente, dentro la stanza di un cospiratore o nello squallore di una angusta prigione. Qualcosa si anima, finalmente nell'ultima parte. Ma il film non ha mordente, è molto lento, si perde tratteggiando fatti e personaggi poco noti.
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Il Risorgimento in formato minimalista. Poche scene esterne e prevalenza di scene di interni con altrettanto pochi personaggi che si scambiano propositi, idee, progetti, ambizioni, delusioni. Per tre quarti il film è statico e comunque paragonabile al palcoscenico di un teatro. Solo dialoghi e primi piani. La sceneggiatura sembra, lo ripeto, adatta a un lavoro teatrale più che a un film. Lo scenario politico, i fatti storici, gli scontri e le battaglie sono relegati in secondo piano, sono semplicemente riportati e raccontati verbalmente, dentro la stanza di un cospiratore o nello squallore di una angusta prigione. Qualcosa si anima, finalmente nell'ultima parte. Ma il film non ha mordente, è molto lento, si perde tratteggiando fatti e personaggi poco noti. E i noti non sono "resi" con la dovuta efficacia; Garibaldi è addirittura una indistinta sagoma che appare per un attimo su un'altura... Anche le pochissime scene di massa sono troppo ridimensionate, con la presenza di trenta o quaranta comparse al massimo. Insomma: un ritratto del Risorgimento certamente insolito, ma anche certamente criticabile.
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