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Passato presente e futuro di Mario Martone

Il regista di Noi credevamo ospite di Ischia Global.
di Giovanni Bogani


mercoledì 13 luglio 2011 - Incontri

È pronto per il suo impegno in giuria a Venezia Mario Martone, il regista di Noi credevamo, tra gli ospiti di Ischia Global. “Come affronterò i film italiani in concorso? Con molta attenzione. Semplicemente questo”, dice. Sottolineando però la parola “attenzione”. Chissà se c’è una velata polemica per quell’attenzione che la giuria, l’anno scorso, forse non ebbe per il suo film.
Un nuovo progetto per una pellicola da girare con il popolo Sarawi, la soddisfazione per l’approdo di Noi credevamo nel palinsesto autunnale di Raitre, la scaramanzia per la possibile candidatura italiana all’Oscar per la pellicola. Questo è il presente di Mario Martone.

A quasi un anno dalla sua presentazione a Venezia, qual è il bilancio su di un film ambizioso, difficile, importante quale Noi credevamo?
Io l’ho sempre detto. È un film maratoneta, non un film centometrista. Voglio dire che i suoi risultati si misurano sui tempi lunghi. È un film che fa le gare di fondo: ancora adesso viene invitato ai festival in giro per il mondo – recentemente a Karlovy Vary – e continua ad avere proiezioni capillari, qua e là, in Italia.

Il film iniziò in sordina, con incassi deludenti nel primo weekend, per poi crescere. Un buon segnale.
È il segno, soprattutto, che la gente pensa con la sua testa, anche rispetto alle indicazioni della classe dirigente.

Quale classe dirigente?
Anche quella che decide come distribuire un film, in quante copie, secondo quali modalità. Anche questa è una classe dirigente.

Ora, però, si parla di candidatura all’Oscar per il film.
Ma anche in questo caso, io non c’entro. E non ci posso fare niente. Non sono uno che conta, nel mondo del cinema, non ho amici potenti. Se il film ce la farà, a ottenere la candidatura, ne sarò felice.

Intanto andrà in tv, probabilmente su Raitre. Doveva andare in onda in due puntate su Raiuno. Avrebbe preferito?
No, credo che Raitre sia proprio il suo acquario. Se fosse stato messo in una rete più importante in termini di audience, ma magari a tarda notte, avrebbe rischiato di passare inosservato. Credo che una rete più piccola possa anche garantire una diversa attenzione a questo film.

Che è un film complesso. Apparentemente poco “televisivo”…
E invece no. Io non ho mai pensato che la televisione sia un mezzo attraverso il quale fornire prodotti più ‘semplici’. Non ho mai abbassato il tiro, pensando al pubblico televisivo. E del resto ci sono opere straordinarie che sono nate proprio per la televisione: basti pensare a Twin Peaks, a Heimat, a Berlin Alexanderplatz. Per me, Noi credevamo è un film radical-popolare. Nel senso che vuole essere insieme semplice, adatto a un pubblico vasto, ma capace di dire cose radicali, non ‘morbide’….

Ha già nuovi progetti in mente?
Avevo fatto un cortometraggio, che si chiama Una storia Sarawi. Adesso vorrei proseguire quell’esperienza, e girare un lungometraggio di finzione connesso al popolo Sarawi.

Che cosa ha imparato dal popolo Sarawi?
Dal contatto con loro mi è venuta la forza per girare Noi credevamo. Loro somigliano molto agli italiani di quell’epoca. Nel senso che per loro, parole come ‘patria’ e ‘martiri’, che da noi hanno perso significato, hanno ancora un senso preciso. La patria è, per loro, il luogo per cui si muore. Proprio come per quei ragazzi che furono i patrioti del Risorgimento”.

Molti hanno visto Noi credevamo come un’allegoria sul terrorismo degli anni ’70.
Ed è inevitabile che qualche riferimento ci sia stato. Perché io sono stato segnato da quel periodo, che è – secondo me – un dramma non raccontato del nostro paese. E credo che ci sia stato un aspetto cospirativo, praticamente terroristico, anche nel Risorgimento. Un qualcosa che è stato a lungo taciuto. Sono stato accusato di disegnare un Mazzini terrorista: ma l‘ho soltanto restituito alla verità della sua lotta. Sarebbe assurdo nascondersi dietro un dito. Come se i francesi, rispetto alla Rivoluzione del 1789, ne avessero taciuto gli aspetti più crudi, e sanguinari. Quelli che non mancarono al nostro Risorgimento.

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