Il divo |
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Un film di Paolo Sorrentino.
Con Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso.
continua»
Drammatico,
durata 110 min.
- Italia 2008.
- Lucky Red
uscita mercoledì 28 maggio 2008.
MYMONETRO
Il divo
valutazione media:
3,47
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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L'uomo senza qualitàdi Paolo PasettiFeedback: 0 |
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venerdì 30 maggio 2008 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
“Andreotti, le sto parlando di politica…” dice a un certo punto un adrenalinico Cirino Pomicino al Divo Giulio. Andreotti si schermisce, un po’ stizzito: ”Non voglio parlare di politica”. Forse la chiave di tutto il film sta proprio in questo frammento: Andreotti NON è un politico. Allo stesso modo, come sentenzia a un certo punto Livia, la moglie del Divo, Andreotti non è quel genio, quello stratega mefistofelico che tutti credono. Piuttosto, la sua qualità consiste nella sua opacità, nell’essere – quasi letteralmente – il buco nero della storia contemporanea d’Italia. Come disse una volta Montanelli, delle due l’una: o Andreotti è il più grande criminale della storia d’Italia, o è il più grande perseguitato. Ma Andreotti è entrambe le cose, perché Andreotti è il nulla. In Andreotti si concentrano secoli di Roma papalina, la città – appunto – eterna, in cui nulla cambia e tutto si perpetua all’infinito. Andreotti – e lui stesso ne è consapevole – è sostanzialmente un portato storico, una forza oggettiva. È molto significativa la sequenza in cui il giovane Divo chiede alla futura moglie di sposarlo al Cimitero di guerra del Verano. La “spettacolare vita” del Divo Giulio è tutta qui: le “azioni” o “inazioni” delle sua vita hanno forse provocato stragi, morti, lutti. Ma quelle stragi, morti, lutti sono accaduti per una forza oggettiva, del tutto impersonale: una guerra, in tutto simile a quella che ha provocato i morti del Verano. La straordinaria forza visiva, drammaturgica, linguistica del film si gioca tutta su questa chiave: di Andreotti non si sa nulla. Come in un antico palinsesto, Sorrentino ha potuto scrivere su questa pagina completamente bianca una partitura grottesca e fantasmagorica, con invenzioni sorprendenti, deliziosi dettagli, accostamenti deliranti e quasi commoventi (come quando Giulio e Livia, mano nella mano, ascoltano Renato Zero che canta “I migliori anni della nostra vita”…). In fin dei conti, anche l’incessante, interminabile ricorso di Andreotti alle battute, all’ironia, ai paradossi non è altro che l’ultima delle sue maschere; ma anche sotto quella maschera si nasconde il solito nulla. In questo Andreotti ha qualcosa di paradossalmente ebraico, un Woody Allen “de noantri”, o ancora meglio una specie di Zeno Cosini: un uomo senza qualità, privo di spessore, sul quale gli eventi scivolano, subito seppelliti dall’ennesimo motto di spirito. Solo nel monologo finale, frontale e sfrontato, Andreotti parla veramente, parla in quanto uomo. Ma a quel punto è già finito, è solo un imputato, anzi, come dicono a Roma, “n’impunito” (alla lettera). Anche se, tutto sommato, Andreotti ha avuto la meglio anche questa volta. A conferma della sua natura non umana (il Divo…), opaca, sfuggente, inafferrabile, i giudici di Palermo hanno dovuto ricorrere a un manipolo di avanzi di galera, i cui racconti erano perfino poetici nel loro essere “fantastici” (e infatti Sorrentino li mette in scena!). Proprio perché Andreotti, nella sua natura fantasmatica, è letteralmente non-incastrabile: la giustizia umana ha bisogno di prove (“potrebbe ripeterlo in aula?”), ma nessuna prova può incastrare Andreotti. Le cose sono accadute secondo un disegno divino, del quale Andreotti rivendica ripetutamente di essere soltanto la longa manus. Tanto, tantissimo “male” è stato perpetrato, ma in fondo Andreotti ne era soltanto il motore immobile: una forza oggettiva, storica, impersonale, priva di quella malvagità che sarebbe, comunque, umana.
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