Ambasciatore dell’Unicef dal 1968, pacifista incrollabile, poliglotta, coltissimo, giramondo, e soprattutto uomo di spettacolo totale. Questo era Peter Ustinov. Incrocio di molte razze diverse (il padre era un giornalista d’origine russa, la madre una scenografa d’origine francese, ma in lui si mescolavano anche ascendenze spagnole, italiane, tedesche ed etiopi), Peter Ustinov era nato a Londra il 16 aprile 1921, aveva studiato recitazione al London Theatre Studio e aveva debuttato in teatro nel 1938 ed esordito nel cinema, come caratterista, nel 1940. Subito dopo la guerra (alla quale aveva partecipato nel Royal Sussex Regiment e nei Royal Army Ordinance Corps.), si era affermato come uno dei personaggi più versatili della scena, del cinema e della nascente televisione britannica. Corpulento, occhi azzurri e acuti, bocca da ragazzino imbronciato o dispettoso, recitava i pezzi comici che scriveva, monologava con umorismo sottile, faceva da spalla ai protagonisti rubando di soppiatto la scena. Era felpato, sotterraneo, benedetto da quel “wit” che solo gli inglesi sanno dominare con tanta noncuranza. L’aspetto fisico, nel cinema, lo destinava inevitabilmente ai “caratteri”.
E fu un carattere (tra i peggiori) che nel 1951 lo trasformò in una star internazionale e gli valse la prima nominarion all’Oscar: il Nerone di Quo vadis di Mervyn LeRoy, infido, ambiguo, petulante, un istrione senza grandezza ma con molto potere, un ragazzino malcresciuto e malvissuto, per il quale forse doveva qualcosa a un attore al quale somigliava un po’ anche fisicamente, il grande Charles Laughton, che era stato Nerone vent’anni prima, nel Segno della croce di Cecil De Mille. L’Oscar arrivò nel 1960, per un altro antico romano, in bilico tra le caste, tra servilismo e dignità, in Spartacus di Kubrick, e nel 1964 un secondo, per uno dei suoi personaggi più belli, l’imbroglione maldestro di Topkapi di Dassin, dove l’ironia e il talento comico si fondevano al massimo con quell’ambiguità che è stata una delle sue chiavi più sotterranee e originali. Ma nel frattempo, Ustinov aveva dato corpo e sfumature ad almeno due grandi personaggi (un principe di Galles con echi falstaffiani in Lord Brunmel di Bernhardt e l’impresario-maestro di cerimonie in Lola Montès di Ophuls, un insinuante domatore soggiogato dalla sua “creatura”), aveva scritto e diretto quattro film (tra i quali il gradevole Giulietta e Romanoff, un Rorneo e Giulietta in anni di guerra fredda, e il notevole Billy Budd, da Melville), non si era risparmiato in teatro, aveva iniziato una lunga carriera di autore letterario (romanzi, racconti e un’autobiografia irresistibile, Dear Me, pubblicata nel 1977).
Poi arriveranno le regie liriche, l’attività umanitaria per l’Unesco e l’Unicef, l’Emmy Award televisivo per The Life of Samuel Johnson e una miriade di altri ruoli per il piccolo e grande schermo, tra i quali, finalmente, un protagonista, ma anche questo anomalo, bizzoso, sui generis, “buono” ma acido e antipatico: l’eroe di Agatha Christie, l’investigatore Hercule Poirot, piccolo belga pomposo, del quale raccoglie il testimone da Albert Finney (che interpretò il primo film della “serie” anni Settanta, Assassinio sull’Orient Express), nel 1978 in Assassinio sul Nilo, e poi nel 1982 in Delitto sotto il sole e nel 1985 nel televisivo Tredici a pranzo. Un Poirot maneggiato coi guanti, sempre sul filo dell’auto-parodia ma mai macchietta, qualcuno di cui sorridere ma da non sottovalutare. I film non erano eccezionali, la misura di Ustinov, il suo gusto.
Da Il Sole-24 Ore, 4 aprile 2004