
Un film dalle ambientazioni straordinarie: il regista parte dall’illusione della bellezza e di un’armonia eterna, ovvero le immagini di paesaggio che sono poi i dipinti della casa. Poi un plastico, un acquario, lo slancio del musical. E infine l'abitazione stessa, un enorme set-giocattolo. Dal 3 luglio al cinema.
di Simone Emiliani
Non c’è più passato. Non c’è più futuro. In The End sembra esserci la stessa dimensione allucinata dei due documentari realizzati da Joshua Oppenheimer, L’atto di uccidere e The Look of Silence, incentrati sugli autori del genocidio in Indonesia avvenuto tra il 1965 e il 1966 che sono rimasti impuniti. Nelle intenzioni del cineasta di origine statunitense doveva esserci un terzo film, quasi a conclusione della trilogia sulle forme del male, sui miliardari indonesiani che sono saliti al potere sfruttando proprio l’effetto dei crimini commessi dove sono state sacrificate milioni di vite che ancora oggi controllano il paese. Ma il cineasta non è potuto tornare nel paese per motivi di sicurezza. The End non è quello che resta di quel progetto ma riparte proprio da lì.
In un lussuoso bunker nelle profondità di una miniera di sale vive una famiglia benestante composta da Padre, Madre e Figlio assieme a un’amica di famiglia, un maggiordomo, un medico e una cameriera. Sono scampati a un disastro ambientale che ha seminato solo morte e di cui loro stessi sono responsabili. Il Figlio, di circa 20 anni, non ha mai visto come era la vita prima e non ha mi avuto un contatto con l’esterno. L’arrivo di una ragazza, che non ha mai superato il senso di colpa per la morte della sua famiglia, rovina questo idillio apparentemente immutabile ma che in realtà è già molto fragile.
Oppenheimer parte dall’illusione della bellezza e di un’armonia eterna: le immagini di paesaggio che sono poi i dipinti della casa. Poi un plastico, un acquario, lo slancio del musical. L’abitazione è come un enorme set-giocattolo, proprio come quello di Dogville di Lars von Trier; la scenografia è di Jette Lehmann, la stessa di Melancholia, film realizzato proprio dal regista danese con cui condivide il tema dell’imminente fine del mondo.
La claustrofobia invece richiama in modo ancora più netto la separazione tra le diverse classi sociali come quelle del treno di Snowpiercer dove Tilda Swinton, tra i protagonisti anche di quel film, interpreta ancora una figura glaciale e sinistra ma che qui si porta addosso i segni di un dolore faticosamente represso. La Madre infatti, ex-danzatrice, è una possibile variazione del personaggio di Mason nel film di Bong Joon-ho. In questo suo primo film di finzione, Oppenheimer porta quindi i residui di quell’idea di documentario mai realizzata. Ma accentua anche la dimensione apocalittica dei suoi primi due film in chiave musical.
L’ispirazione al genere è a quella fiducia nel futuro ma anche alla falsa speranza dei film hollywoodiani degli anni Cinquanta, tra Gene Kelly, Stanley Donen e Vincente Minnelli. Ma tra i modelli di partenza c’è stato soprattutto Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, come ha sottolineato lo stesso Oppenheimer. Da lì c’è quella spinta a svelare un altro metodo nella recitazione degli attori proprio mentre stanno cantando. I testi delle 13 canzoni del film li ha scritti proprio il regista ma è stato, sotto questo aspetto, molto importante l’apporto delle musiche di Josh Schmidt, alla prima colonna sonora per il cinema.
The End si apre con una citazione di Quattro quartetti di T.S. Eliot (“Le case sono tutte scese sotto il mare, i danzatori sono tutti scesi sotto la collina”) e tende a valorizzare le performance degli attori creando una realtà parallela ma facendo emergere gradualmente anche l’intensità del conflitto come si vede, per esempio, dalle interpretazioni di Tilda Swinton, Michael Shannon e Bronagh Gallagher. Ma soprattutto c’è quello tra George McKay e Moses Ingram, che è insieme sentimentale e drammatico, che interpretano i ruoli del Figlio e della Ragazza. Nell’unità di spazio, Oppenheimer sottolinea le loro performance anche attraverso una struttura teatrale con entrate e uscite di scena. Per questo, oltre ad essere stato un possibile documentario mancato ma anche metafora sull’isolamento del Covid-19, ha anche la struttura per una pièce a Broadway. Tra il cinema e la scena del palco, non c’è più distanza.