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Giuseppe Tornatore: «Morricone era un atleta della mente. Ogni sua melodia raccontava una storia»

In occasione dell’uscita di Ennio, dal 17 febbraio al cinema, il regista siciliano racconta in una lunga intervista a MYmovies lo straordinario rapporto con Ennio Morricone, scomparso due anni fa ma ancora oggi onnipresente nel panorama cinematografico e musicale.
di Marzia Gandolfi

Ennio Morricone Altri nomi: (Mº Ennio Morricone / Morricone / Leo Nichols / Dan Savio) 10 novembre 1928, Roma (Italia) - 6 Luglio 2020, Roma (Italia).
lunedì 14 febbraio 2022 - Incontri

Scomparso due anni fa, Ennio Morricone resta onnipresente nel paesaggio musicale. È il solo compositore identificato con il cinema i cui temi, evidenti fin dal primo ascolto, possono essere fischiettati, cantati, suonati, arrangiati da chiunque, non soltanto dai cinefili. Dal grido selvaggio di Il buono, il brutto, il cattivo all’armonica di C’era una volta il West, tutti conoscono i suoi ‘brani’ senza aver visto necessariamente i film che li illustrano.

Perché Morricone ha fatto più di chiunque altro per la popolarità della musica da film e per la sua diffusione fuori dal suo ambito. Ha prodotto un’opera colossale che sposava la sua prodigiosa cultura classica con un incredibile istinto pop.

Questa doppia polarità, che conserverà fino alla fine, definisce perfettamente lo stile Morricone e lascia un’impronta sul cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. Quella impronta guida il documentario di Giuseppe Tornatore, restituendoci in un’intervista fiume la sua astrazione intellettuale, qualche volta impenetrabile, e la sua meticolosità perfettamente concreta quando si trattava di comporre, di offrire un sottotesto pulsante a una sceneggiatura.

Ascoltare Morricone parlare è già ascoltare la sua musica. Ha un’elocuzione precisa, un ritmo e una cadenza tutta sua. Canta per onde ascendenti e discendenti con un accenno di dolenza che non intralcia mai la chiarezza del suo discorso mentre osa combinazioni inedite, gonfiando il fragore di percussioni barbariche, imitando i versi degli animali, combinando pianoforte, mandolini, clavicembali, chitarre elettriche, ottoni, carillon, campane, fruste e strani effetti.

Morricone portava il corpo nella musica, a volte grottescamente carnale (i rumori prodotti dallo stomaco vuoto di un bandito) a volte celestiali (la voce sublime di Edda dell’Orso). Più di tutto fuggiva la tradizione illustrativa e Tornatore accompagna quella fuga, una cavalcata artistica e umana. Perché il regista siciliano ha questo senso, l’emozione immediata di una fotografia o di una nota. Era già tutto in Nuovo Cinema Paradiso, quella vocazione a strappare momenti di vita alla morte.

Non capita tutti i giorni che un continente scompaia ma di quella vastità, Tornatore restituisce un bagliore che vorremmo non finisse mai. In quel lampo, Ennio Morricone si racconta intimamente e musicalmente davanti ai nostri occhi che guardano l’uomo che ha forzato tutte le serrature con la punta della sua bacchetta.

Dal 17 febbraio Ennio di Giuseppe Tornatore porterà la sua leggenda forte e chiara sullo schermo.


“Osservare Ennio Morricone mentre lavorava era come osservare un atleta..”, lo dice Roland Joffé nel suo film. La metafora dell’atleta è singolare ma appropriata, suppongo che ‘fare esercizio’ aiuti a mantenere una qualità del suono e dell’esecuzione, ad ‘accordare’ il corpo costretto dallo strumento a una postura scorretta, ad allenare lo spirito. Come gli atleti bisogna riscaldarsi prima della gara o di una performance. È per questo che al debutto del film vediamo Ennio Morricone fare ginnastica?
Tutti quelli che conoscevano Ennio erano al corrente di questa storica abitudine. Tutte le mattine, all’alba, talvolta anche prima dell’alba, faceva un’ora di sport. Lo ha fatto tutta la vita. Per certi versi, Ennio è stato un atleta, ha mantenuto la sua fisicità sempre elastica, sempre viva, sempre giovane, sulla base di un rigore davvero unico. Ma la relazione tra la bella definizione di Roland Joffé e la sequenza di Ennio che fa gli esercizi ginnici a casa sua ha un secondo grado, sotto la superficie, sotto questa routine c’è una ragione più profonda.

Ennio era atleta nella testa, era un atleta della mente. Tutti quelli che hanno lavorato con lui, registi, fonici, montatori, non facevano che ripetere quanto fosse sorprendente la sua dinamicità mentale. Una dinamicità che si sposava col suo leggendario rigore. Con elasticità mentale intendo la capacità di stare all’erta, di essere pronto a risolvere problemi in qualsiasi momento, di rispondere in tempi rapidi alle questioni tecniche che il fare cinema comporta. Quella sua facilità ci lasciava sempre a bocca aperta.

Abbiamo collaborato insieme per più di trent’anni e parecchie volte mi è capitato di fargli richieste davanti alle quali sarebbe stato perfettamente naturale mandarmi a quel paese, dirmi no, mi spiace, non si può fare e invece non smetteva di stupirmi. Elastico, duttile, creativo, trovava sempre la soluzione. Così quando Roland ha pronunciato quella battuta ho trovato nella sua replica una valenza allegorica.

Certo Morricone era agile fisicamente ma io pensavo più all’agilità del suo pensiero, della sua maniera di rapportarsi alla sua arte. Riusciva ad adattarsi a ogni autore, a ogni carattere senza tradire mai se stesso. Potevi chiedergli anche una cosa stupida o una cosa che lo sembrasse all’apparenza, capita talvolta di aver bisogno di cose più semplici, e lui riusciva a farla sembrare migliore, a trovare quella ragione in più, perché la sua creatività non ne uscisse umiliata. E anche questo lo ha fatto per tutta la vita. L’esempio più clamoroso è la sua stagione di arrangiatore di canzoni. Non ha mai esercitato quel ruolo in maniera passiva. Prima di lui i compositori ricevevano la melodia di una canzone e si limitavano a strumentarla. Con Ennio le cose cambiarono per sempre, trovava per i suoi arrangiamenti delle ragioni musicali che spesso sfuggivano all’autore, al cantante stesso o agli ascoltatori.

Ma spesso quella ragione gli dava la possibilità di portare avanti la sua sperimentazione musicale. Così arrangiava una canzone di Gianni Morandi introducendo una traccia di derivazione wagneriana o applicando addirittura i principi della musica dodecafonica o della musica tonale. La gente forse non lo capiva, però ascoltando quella canzone ci trovava qualcosa di completamente diverso, qualcosa che la attirava, la incuriosiva. Questo era il suo grande talento, questa la sua poetica.


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Ennio Morricone in una scena del film di Giuseppe Tornatore.


Nel film lei interviene in due occasioni per raccontare la sua collaborazione con Morricone in merito a Nuovo Cinema Paradiso e a La leggenda del pianista sull’oceano. In quegli interventi illustra le idee che hanno guidato Morricone alla stesura delle due composizioni musicali. Posso chiederle di aggiungere alla lista il suo film più metafisico? Può raccontarmi com’è riuscito Morricone a mettere in musica il torpore umido di Una pura formalità?

Gliene parlo molto volentieri perché è un bell’esempio di come lavorava Ennio. Peccato non averlo inserito nel documentario ma non potevo certo parlare di tutti i miei film. Una pura formalità è perfetto per dire il suo originale approccio alla musica e alla musica da cinema ma lo è altrettanto per testimoniare la mia felice relazione con Ennio. La musica che creava non veniva dal nulla, nasceva dal lavoro fatto insieme, discutendo di tutto. Ennio cercava nel film, dentro il film la chiave per trovare l’idea giusta, la struttura giusta.

La partitura musicale di Una pura formalità la concepì a partire dalla sceneggiatura, era a immagine e somiglianza della sceneggiatura. Il film lo si può sintetizzare così: la storia di un uomo che non ricorda più cosa ha fatto nelle ultime ore della sua vita e qualcuno lo aiuta a ricordare. La fatica del personaggio, il suo tentativo di recuperare la propria memoria, quell’assenza, quel vuoto della mente, Morricone lo traduce in musica atonale. La riconquista dei ricordi approda poi alla musica tonale. Ha concepito una partitura dissonante che progressivamente, e parallelamente al rammentarsi del protagonista, cede alle contaminazioni tonali che finiscono per occupare tutto la spazio della dissonanza e a volgere in tonale la partitura.

È straordinario, è l’uovo di Colombo. Ma non è finita qui. Sa che cos’ha fatto dopo? Siccome il film è impregnato d’acqua, ha impiegato strumenti ad acqua per creare il senso di ciò che è umido, è questo a darle l’impressione d’umidità. Ha inventato addirittura delle percussioni che colpiva e immergeva nell’acqua, creando così una distorsione d’acqua. Ha creato un suono liquido. Lo vede com’era? Per lui non si trattava di inventare una melodia o più melodie, ne poteva inventare miliardi.

Per Ennio inventare una melodia era l’approccio più banale. Creare musica era altro, era cercare, era tradurre in linguaggio musicale un racconto, era, se possibile, trovare ispirazione negli elementi sonori interni alla storia. Quello che fece con Una pura formalità fu davvero straordinario. È una delle partiture che amo di più e anche lui l’amava molto.


Ogni volta che parlo con qualcuno che ha visto Ennio, il primo commento è che ne avrebbe voluto di più. Ennio Morricone sembra non bastarci mai, sentiamo che c’è ancora tanto da scoprire, tanto da raccontare sull’uomo, l’artista e la sua opera musicale, tra le più prodigiose del XX secolo.
Le confesso una cosa, il documentario era molto più lungo, c’erano molti più capitoli, molti più argomenti trattati ma sa come va, a un certo punto bisogna tagliare.


Nel suo documentario, Morricone dice che “la musica non si racconta ma si ascolta”. Di fatto lei è riuscito a raccontare la musica di Ennio Morricone facendocela soprattutto ascoltare. Morricone lo vediamo e lo ascoltiamo ricostruire per noi la sua musica, ‘suonarla’ con le dita. I registi che incontra fano lo stesso, i Taviani o Bertolucci cantano a mezza voce i temi dei loro film. È un ‘movimento’ spontaneo o ricercato?
È stata una mia idea. Per tutta la vita Ennio, lo vede anche nel film, parlando del suo lavoro ha accennato una frase, una melodia, un’armonia. Lo faceva istintivamente. La sua musica è un patrimonio che appartiene a tutti, tutti la conoscono, tutti la canticchiano così quando ho cominciato a intervistare autori, produttori, musicisti, cantanti mi sono detto che poteva essere una bella idea quella di chiedere a un certo punto di accennare qualcosa di Ennio. E lo hanno fatto tutti anche se non è stato possibile montare tutto, ho montato il necessario però ha funzionato.

Alcune volte gioco con questi interventi, qualche volta ironicamente, qualche altra emozionalmente. Tutte le volte che Bernardo Bertolucci canticchia il tema di Novecento, io mi commuovo perché si sente che non arriva alla tonalità, che si sforza e lo sforzo che fa nell’agganciare la melodia mi emoziona sempre anche dopo averlo visto mille volte.

In fase di montaggio questa maniera di procedere ha prodotto momenti irresistibili, ogni volta col mio montatore ci guardavamo e ci chiedevamo se stessimo montando un documentario o una commedia musicale. Perché alla fine cantavano tutti.


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Ennio Morricone in una scena del film di Giuseppe Tornatore.


È difficile dirigere chi dirige? Penso naturalmente a Ennio Morricone ma anche a Roman Polanski (Una pura formalità).

Mi sono sempre rapportato con Polanski per il ruolo che era chiamato a svolgere nel mio film, mi rivolgevo a lui come a un attore. Non ho mai avuto il timore reverenziale o l’ansia che presto o tardi avrebbe esibito le sue competenze da regista. In fondo si sarebbe anche potuto permettere di dirmi “Guarda, Giuseppe, che questa inquadratura se la fai così è più bella…” ma non lo ha mai fatto. Si è comportato come un attore e così Morricone. Non mi sono mai permesso di entrare nel suo territorio e lui non si è mai permesso di invadere il mio, questa secondo me è stata la chiave della felicità del nostro rapporto.

Io amavo la musica, conoscevo benissimo la sua ma non conoscevo il linguaggio musicale, la terminologia tecnica quindi cercavo sempre di farmi capire da lui attraverso metafore, attraverso esempi, giri di parole che potevano anche sembrare astrusi ma lui riusciva sempre a interpretare quello che io gli dicevo e a ricondurlo nel suo perimetro linguistico. Nel rispetto delle reciproche competenze, cercavamo di interpretare ciascuno il codice dell’altro inserendolo nel proprio linguaggio. Se io mi fossi preoccupato di studiare la musica, di cominciare a suggerirgli qualcosa in termini musicali, il nostro rapporto sarebbe finito, perché un regista non dovrebbe mai dire a un compositore: “Qui mettici un Fa diesis…”, sarebbe un errore. Un regista dovrebbe limitarsi a suggerire le chiavi del sottotesto, la funzione della musica in questa o quell’altra sequenza.

Noi lavoravamo così, spiegavo tutto in dettaglio a Ennio e poi lui tirava fuori due, tre o quattro idee e tra quelle ce n’era sempre una che trovavo assolutamente e straordinariamente pertinente. A quel punto poi si passava alla strumentazione. Insomma c’era grande vivacità, Ennio non si approcciava mai ai miei film passivamente e io facevo altrettanto, rispettando la sua libertà e la sua disciplina.

Fra noi c’era un accordo che nasceva dai tanti anni di frequentazione e di amicizia, noi due potevamo dirci tutto. Se io gli suggerivo qualcosa che magari era una stupidaggine, lui me lo diceva tranquillamente, se mi faceva ascoltare un tema che secondo me non c’entrava niente col film, lui lo buttava nel cestino e ricominciava da capo. Nessuna riserva tra noi, ci venivamo sempre incontro.

Qualche volta capitava che gli chiedessi una cosa, ad esempio, un crescendo e lui rispondeva che lo poteva fare ma che sarebbe stato necessario modificare la lunghezza di un’inquadratura, altrimenti non avrebbe fatto in tempo a inserire quel crescendo espressivo. Mi aiutava a capire e io modificavo, lui prendeva i tempi e poi diceva “Così va bene, così ce la faccio”.


Per Ennio Morricone le cose della vita erano fonte di ispirazione per comporre. Penso allo scricchiolio della scala di legno che ha ispirato i primi venti minuti della partitura di C’era una volta il West. Qual è stato il punto di partenza per il suo documentario: una nota, una foto, un ricordo, un aneddoto…?
Devo essere sincero con lei, quando mi sono trovato a fare questo documentario sapevo pressappoco tutto di Ennio. In trentadue anni, lavorando tra un film e l’altro (Ennio poteva anche scrivere una partitura musicale a settimana, io per fare un film ci metto due o tre anni), ci siamo raccontati tante cose, lo conoscevo bene. Non sono partito da una cosa specifica ma da un concetto sì: volevo fosse lui il coreuta del film.

Per tutta la sua vita, Ennio ha rilasciato interviste, le vada a vedere, qualcuna l’ho citata anch’io, lo osservi, in genere lui non è mai rilassato, è sempre teso. Il giornalista televisivo, soprattutto, porta con sé l’ansia della sintesi perché ha bisogno di risposte brevi, perché ha bisogno di porre subito la domanda successiva. Ecco questo lo angosciava, lo stressava e lo faceva chiudere in se stesso. Il suo eloquio non era felice, non riusciva a raccontarsi facilmente come aveva fatto mille volte con me in occasione di pranzi o cene.

Quando Ennio parlava agli amici della sua vita, del suo passato, della sua musica era divertente, era brillante, era diretto, dovevo riuscire a tirare fuori quella semplicità, quella simpatia, quella brillantezza, quella chiarezza. Gli dissi allora di voler fare questa lunga intervista, gli dissi che ci avremmo potuto mettere anche settimane, “quando ti stanchi interrompiamo”, gli ripetevo, “e riprendiamo quando vuoi”. L’unico sacrificio che gli avevo imposto era quello di vestirsi sempre nello stesso modo perché dovevamo dare l’impressione dell’unità di tempo. E lui ha capito perfettamente, si è lasciato andare.

Non gli ho mai chiesto di dare risposte brevi, poteva dire quello che voleva e si poteva prendere tutto il tempo del mondo. L’intervista integrale dura quarantaquattro ore e quel fluire placido lo ha messo nelle condizioni di esprimere tutto se stesso.

Quando cominciammo l’intervista capii subito di avere in tasca il documentario perché ‘il tempo’ era la novità. Morricone riusciva finalmente a rappresentare se stesso, a raccontare se stesso. A quel punto avevo solo bisogno di trovare un escamotage perché il documentario rispondesse più alle leggi della sua musica che non a quelle del racconto cinematografico. Ma questo è un lavoro che ho fatto dopo.


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Giuseppe Tornatore con la moglie Roberta Pacetti e Maria Travia Morricone, moglie di Ennio, alla presentazione del film a Venezia 78.


Spingendo sul pedale psicanalitico?

Le dirò una cosa, quando abbiamo finito di girare, Ennio mi confessò di non essere mai andato in analisi in vita sua ma quello che aveva appena fatto con me gli sembrava assomigliasse proprio a una lunga seduta psicanalitica.

E ha superato il padre, quello biologico e quello artistico…
Eh, il rapporto con Petrassi è importante, forse è la linea drammaturgica più elettrica del film. Ho sottolineato con forza questa relazione perché in un documentario di durata non proprio canonica doveva esserci un elemento drammaturgico importante e io l’ho trovato nel rapporto tra Ennio Morricone e Goffredo Petrassi.

Nel conflitto interiore di Ennio con se stesso, con il suo cercare sempre di mettere insieme la grande lezione della musica classica, e contemporanea, e la capacità di sapersi adeguare alla sfida che ti pongono altri linguaggi, il cinema, la canzone, il teatro, l’avanspettacolo. Questi due elementi sono i pilastri di Ennio, quelli che mi hanno permesso di fare un film che regge a dispetto della sua durata. Per dirla tutta, al conflitto con se stesso e con Petrassi si aggiunge anche la conflittualità col padre.

Nel film ci sono due padri e un figlio, ed è interessante vedere come Ennio si relazionasse con loro. Lavorando su tutto il materiale che ho raccolto, analizzandolo, mi sono convinto che la cifra di Ennio fosse il rilanciare costante. Tutte le volte che si trovava in un contesto ‘ostile’, in cui qualcuno cercava di costringerlo a fare qualcosa, lui non fuggiva, accettava di fare quella cosa e poi rilanciava, faceva più di quanto gli fosse richiesto. Era il suo modo di eludere la costrizione, di superarla, di trovare la propria libertà.

Ha sempre fatto così e si vede molto bene nella meccanica ‘coi padri’. Suo padre gli impone la tromba, bene, allora lui studia composizione e diventa un bravo compositore, per certi versi anche contro la volontà del genitore che era un uomo umile e voleva soltanto che lui imparasse un mestiere per mantenere la famiglia. Ma lui va oltre le aspettative paterne. Stessa cosa con Petrassi, che gli insegna la chiave del mestiere, gli insegna l’amore per la grande musica e ci riesce benissimo ma ancora una volta a lui non basta e prosegue per la sua strada, trova un modo altro di applicare tutti gli insegnamenti alti e nobili della musica, li applica a quello che il mondo in quel momento gli offriva. E cosa gli offriva il mondo? Delle novità che erano il pubblico, l’ascolto popolare, i nuovi linguaggi... Il risultato lo conosciamo.


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