
Il film di Ildikó Enyedi, interpretato da Léa Seydoux, è tratto dal romanzo di Milán Füst. Ecco chi è lo scrittore e le premesse del libro.
di Pino Farinotti
La regista ungherese Ildikó Enyedi nel 2021 ha realizzato il film. Storia di mia moglie, opera di qualità, con Léa Seydoux, Sergio Rubini e Jasmine Trinca. Enyedi ha lavorato sul contenuto del libro di Milán Füst soprattutto sui dialoghi, aggiornandoli. La regista si è sempre impegnata aderendo soprattutto alla propria vocazione e intenzione. Da artista colta ha sempre privilegiato la letteratura rispettando l’intenzione primaria dello scrittore, intervenendo con misura; è legittimo dire che il titolo può appartenere, in parte cospicua, alla regista oltre che allo scrittore. La stessa autrice ha “confessato” di essersi permessa una licenza evocando lo scrittore austriaco Arthur Schnitzler, e il suo romanzo “Doppio sogno”, diventato poi il film Eyes Wide Shut a firma di Stanley Kubrick.
Il cinema “colto” ha onorato Ildikò Enyedi, che ha vinto la Caméra d’or al Festival di Cannes nel 1989 per Il mio XX secolo, e l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2017 con Corpo e anima, che è anche stato candidato all’Oscar come miglior film straniero. Dunque è bene prestarle attenzione.
É di recente uscita il “master” letterario di Milán Füst, edito da Adelphi. Mi sembra dunque un esercizio opportuno raccontare dalla radice “La storia di mia moglie”. Le due discipline procedono parallele. Per sua natura la carta può approfondire, completare la vicenda. Il libro è sempre una bella premessa. Sta all’utente completare il “dittico”.
Füst (1888-1967) ungherese, nato da famiglia nobile ebrea, ha studiato economia e legge e ha insegnato economia a Budapest. Decisivo è l’incontro nel 1908 con lo scrittore Erné Osvàt che lo introduce nell’ambiente letterario.
Füst diventerà uno dei più importanti autori del suo Paese. “La storia di mia moglie” è il suo romanzo più famoso, pubblicato nel 1942. Ma solo nel 1958 si impose, quando fu pubblicato da Gallimard in Francia. Col successo arrivarono le traduzioni in molte lingue. Quel titolo valse allo scrittore la candidatura al Premio Nobel nel 1965. Assegnato all’islandese Halldór Laxness.
La storia. Jacques è un omone alla… Orson Welles, è capitano di lungo corso e nella vita ne ha viste di tutti i colori. Paesi, culture, costumi, donne. Quando incontra Lizzy potrebbe essere l’amore della vita. Ma Jacques, che conosce molto, non riesce a conoscere in profondità quella donna particolare. E lo racconta.
“Io mi trovo in continuo pericolo di vita, e tanto più a quel tempo, e non soltanto quando navigavo in alto mare. All’epoca ero in contatto con certi filibustieri levantini abbastanza pericolosi, figuriamoci quindi se potevo occuparmi di simili sciocchezze, se mia moglie mi avrebbe amato, se mi sarebbe stata fedele mentre ero lontano da casa. Ad ogni modo le donne non sono mai fedeli, meno di tutte le mogli dei comandanti delle navi, questo fa parte del gioco…”.
“Così le comprai un mucchio di braccialetti e di collane e me la sposai. Perché a noi marinai non piace fare la corte troppo a lungo”.
Jacques è dominato dalla moglie, e reagisce col possesso e la gelosia. Sentimenti che peggiorano le cose, tanto che Lizzy fugge. Passa il tempo e il destino porta i due ad abitare nello stesso palazzo. La donna vive nella stanza accanto. Sono separati da una parete. Ma Jacques, tormentato, sempre con Lizzy nella memoria e nel cuore, non riesce a bussare a quella porta.
Il libro è in sostanza anche una proposta sentimentale, senza pudori, che diventa un trattato sui rapporti fra uomini e donne che si attraggono, ma che non si capiscono. Quando “capirsi” sarebbe indispensabile, soprattutto rispetto ai difetti e alle debolezze dei partner. Sarebbe un esercizio utile anche a fronte delle complicazioni dell’esistenza.