
Algeria, fine anni ’90. Nedjma è una studentessa che non vuole abbassarsi al fondamentalismo islamico. La moda è la sua unica ma potentissima arma. Al cinema.
di Simona Previti
Algeri, fine anni ’90. Il film di Mounia Meddour ha coordinate subito molto femminili: la fuga di due giovani ragazze verso il divertimento notturno. Un taxi dove cambiarsi con l’outfit per la serata in discoteca. Gioielli, make-up, chewingum e sigarette. La leggerezza tipica di quell’età. La preghiera del minareto che si sente sulla loro fuga viene coperta in macchina da "Pump up the Jam" dei Technotronics, emblema della disco anni ’90 che Nedjma, la protagonista della storia, impone al tassista. Suona la musica della modernità e della libertà che proviene da altri paesi, ma che non ha confini.
Questa fuga al femminile trasuda giovinezza. Ma le immagini iniziano a contrastare col suono. Non solo la preghiera che viene dall’alto non combacia con quella voglia di libertà, ma anche ciò che si sente dalla radio in taxi è tutt’altro che conciliante con quella spensieratezza: attentati islamisti stanno cambiando la quotidianità di Algeri. Un clima di violenza inizia a serpeggiare.
La regista Mounia Meddour ha vissuto quegli anni in Algeria, e la storia in parte rielabora esperienze personali.
Il film lascia presto le note leggere, il divertimento in discoteca, per raccontare la lotta di Nedjma per la propria libertà di espressione, la libertà di essere una giovane donna (una “Papicha”, giovane “alla moda”) nell’Algeria degli anni ’90; studentessa di moda che non vuole abbassarsi al fondamentalismo islamico. Nedjma strappa per strada i manifesti di propaganda che “invitano” a coprirsi, progetta con caparbietà una sfilata di moda dentro la città universitaria, dove vive con le sue compagne di corso, come atto di ribellione e affermazione della propria femminilità.
Non conosci Papicha è un film dove la coralità femminile fra la protagonista e le sue più strette amiche, vissuta fra le aule dell’università, le stanze e la mensa, gioca un ruolo molto importante. è un’unione di intese, uno scambio di sguardi e di forza per preservare un’idea di donna che l’estremismo vuole cancellare.
Questa femminilità la regista la racconta attraverso una potente metafora visiva: un gioco di stoffe e di pieghe. Tessuti che si trasformano in altri tessuti, a cui la macchina da presa regala inquadrature ravvicinate come per farne pennellate di colore, sculture leggere di plisset. Un lavoro materico con scene che quasi tendono all’astrattismo.