
Il film di Reitman affronta la tematica del mutamento del giornalismo e della moralità pubblica, preservando il suo intento informativo.
di Roy Menarini
Una vera ossessione, quella per la politica nel cinema americano contemporaneo. Se Vice (guarda la video recensione) ha raccolto il massimo dell'interesse in questi tempi, forse per il suo ardito mix di cinema, televisione, talk show, documentario di montaggio, narrazione seriale e così via, altri approcci sono possibili, come dimostra The Front Runner - Il vizio del potere. Lo stile di Jason Reitman non potrebbe essere più diverso, anche perché - oltre che un film sulla politica - il suo è un film sull'informazione. Controcanto quasi crudele a The Post (guarda la video recensione) di Steven Spielberg, The Front Runner - Il vizio del potere denuncia frontalmente il mutamento antropologico del giornalismo, e la trasformazione stessa del concetto di moralità pubblica.
Temi, peraltro, che riguardano da vicino l'Italia, poiché - se in questo racconto è la baldanza di un democratico ad essere risucchiata nel vortice degli scandali - da noi le parti politiche si invertirono, e fu la vita sessuale di un premier di destra a scatenare la stampa di sinistra.
Reitman, in effetti, non la fa affatto facile, e - forse con qualche gentilezza di troppo - cerca di offrire l'onore delle armi mostrando l'imbarazzo degli inviati ad occuparsi delle scappatelle di un politico, ad appostarsi tra le siepi per immortalarne le scostumatezze, a fotografarlo in maniche di camicia nel vialetto di notte. La spettacolarizzazione della politica nasce forse negli anni Ottanta, anche se recenti studi hanno dimostrato quanto persino Lincoln facesse riferimento a studi di comunicazione per impostare i propri discorsi pubblici.
Un conto, però, sono sondaggi e analisi del target degli elettori, e un conto è il sistema dello spettacolo. In effetti, The Front Runner - Il vizio del potere non è solo il racconto dell'inizio di qualcosa ma anche dei prodromi di ciò che si sarebbe svolto in tutt'altro contesto di lì a una quindicina di anni. La vicenda del senatore Hart è ancora una questione di fotografie, indagini porta a porta, televisione, dibattiti dal vivo, giornali di carta, servizi scritti matita in bocca, maniche rimboccate, di notte, per poter uscire con l'edizione del mattino. Qualche tempo più tardi, Internet avrebbe cambiato tutto, offrendo nuovi strumenti alla politica ma anche nuove armi al giornalismo d'inchiesta scandalistica. I politici sono diventati "celebrities" della Rete e gli scandali o le immagini compromettenti a loro volta si sono svincolati da tutte le intermediazioni, portando l'informazione e le fake news in un territorio di pericolosa prossimità.
Ecco, forse The Front Runner - Il vizio del potere - mentre denuncia un imbarbarimento - sta in verità anche raccontando la resistenza di una sorta di etica del giornalismo, un'ultima negoziazione sui limiti del mandato informativo, che almeno nel 1988 aveva ancora lo scopo di trovare la verità e smascherare le bugie di un candidato, per quanto private e probabilmente insindacabili.
Il resto lo fa lo stile di racconto e regia scelti da Jason Reitman, che si conferma autore di rarissima intelligenza e forse uno dei cantori meno noti di un'identità statunitense che - riguardando la sua intera filmografia - verrebbe fuori in tutta la sua complessità e grandiosità. Quasi altmaniano nel primo, lunghissimo piano sequenza, continua a seguire il maestro in gran parte della pellicola. Come Altman, anche Reitman privilegia un racconto corale, dove non c'è un vero protagonista, a cominciare da Gary Hart, il cui punto di vista non sposiamo di fatto mai lungo le due ore del film, e che rimane un personaggio ambiguo e opaco. In questo modo, Reitman ci mette nelle mani dei giornalisti e dei suoi assistenti, di cui seguiamo la sfida a scacchi, lasciandoci il compito di trarre le conclusioni morale e deontologiche del caso. E (a conferma che il regista guarda all'esperienza del cinema americano anni Settanta) se dovessimo trovare altre analogie ci verrebbe in mente Il candidato (1972) di Michael Ritchie, con un superbo Robert Redford, che già allora (pensate un po') venne considerato un film sul declino dell'idealismo in politica e nell'informazione.
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