EVEREST (USA, 2015) diretto da BALTASAR KORMAKUR. Interpretato da JASON CLARKE, JOSH BROLIN, SAM WORTHINGTON, JAKE GYLLENHAAL, KEIRA KNIGHTLEY, ROBIN WRIGHT PENN, JOHN HAWKES, EMILY WATSON, MICHAEL KELLY
Talvolta, per scrivere un articolo giornalistico, mantenere una promessa, ispirare le generazioni venute dopo, combattere la depressione, arricchirsi, accumulare obiettivi, alimentare il proprio sogno e realizzare quello degli altri, si arriva a compiere qualunque impresa impossibile, perfino scalare l’Everest. Alla frontiera tra Cina e Nepal, la vetta è la destinazione di un gruppo formato da persone provenienti da tutto il mondo, il quale ha deciso di affidarsi all’esperto scalatore Rob Hall e alla sua società, l’Adventure Consultants, per sfidare la Natura. Rob è sposato con Jan e ha una figlia in arrivo che spera di trasformare in una futura, provetta scalatrice. Le cose si complicano quando al campo base si affolla un gruppo di dilettanti capitanati da Scott Fischer, rivale di Rob e alpinista scanzonato col vizio dell’alcol. I due professionisti decidono comunque di integrare i loro rispettivi gruppi e accordarsi per raggiungere la cima più alta del pianeta il 10 maggio 1996, e partono proprio quel giorno col favore di un tempo clemente. Ma ben presto la scarsa preparazione dei clienti, unita all’organizzazione approssimativa, rischia di mietere vittime. Nondimeno alcuni alpinisti toccano con mano la meta a 8.848 metri d’altezza col sostegno di Rob, sempre generoso coi suoi clienti. Poi si scatena una bufera che soffia sul monte, spezzando il destino di uomini e donne troppo presuntuosi e fiduciosi in sé stessi in modo irrevocabile. Con la montagna non si scherza, né si tentano esperimenti folli. Mettere alla prova le proprie capacità di resistenza fino al limite della tollerabilità umana è un pericolo contro cui gli alpinisti si premuniscono per dovere e per coerenza. Colui o colei che si accinge a dimostrare che niente è impossibile contro la Natura non si rende mai conto della limitatezza in cui ristagna, non che sia un disonore: del resto, andare oltre i propri limiti rappresenta dalla notte dei tempi un bisogno dell’essere umano tra i meno controllabili sul piano degli impulsi istintivi. Quello che fa la differenza (l’incognita insidiosa) è il tradimento. La Natura, sulle prime, si mostra accogliente e invitante, dopodiché si può scegliere un momento qualunque per rivelare il vero volto con sadica malvagità e perversa mancanza di pietà. Nelle cosmogonie la montagna assume il significato della distanza che separa il cielo degli dei immortali dal mondo terreno, e si può dunque interpretare come l’ascesi della linea verticale con cui noi ci mettiamo in contatto con le entità superiori, per chi vi crede fermamente e senza discrimine di religioni o convinzioni personali. L’Everest è infatti non a caso un sito geografico e orografico meglio conosciuto dai nepalesi che, man mano che ci si avvicina alla vetta, lo venerano costruendo alle sue pendici monasteri dediti all’adorazione. Rob Hall (un fantastico J. Clarke), in veste di profanatore delle leggi naturali ma comunque graziato dall’Alto poiché ha già scalato l’Everest ben cinque volte, non vuole negare il piacere della gloria a nessuno, soprattutto all’amico e cliente Doug, che ha intrapreso la scalata a beneficio dei bambini che frequentano la stessa scuola elementare dei suoi figli. Quella di Hall è una quieta pazzia inconsapevole di sé stessa che cova in perfetto silenzio nel suo animo indomito di esploratore, sempre pronto per partire alla ricerca di terreni sconosciuti in cui sondare le abilità che richiedono le esperienze estreme. La sua intenzione di allargare il sogno a persone troppo piccole per permettersi anche solo di sfiorarlo viene abbattuta quando la realtà gli si para innanzi con le facce e i corpi sofferenti dei suoi amici che piombano nell’ipotermia e con la tempesta di neve che congela tutto ciò che raccatta sul suo cammino inesorabile. Questo film d’avventure, che rievoca un genere cinematografico molto apprezzato nella Germania pre-nazista, scelto come apripista del Festival di Venezia 2015, è costruito a regola d’arte dal regista islandese che toglie ogni romanticismo al fascino della montagna, emblema della visione distorta e laica dell’Occidente, per narrare gli iter di uomini comuni che affermano con un po’ di incertezze di sapere quel che fanno, ma difettano del vero coraggio e dell’autentico talento che dovrebbero serbare in cuore per sentirsi completi così da non azzardarsi troppo in là al fine di riempire un vuoto esistenziale. Kormákur denuncia con efficacia le mode turistiche europee e americane, assieme alla razionalizzazione forzata di miti immortali legati alla vita e alla morte, che intravedono nelle spedizioni di massa la direzione giusta per accedere ad una sorta di celebrità completamente autoreferenziale, spina nel fianco e chiodo fisso che viene prodotta dall’avvelenamento procurato dalla mediocrità quotidiana. Ottimi gli effetti speciali. Eccellente anche la scelta di introdurre una colonna sonora rarefatta che sottolinea col maggior impeto soltanto i passaggi più intensi. Recitazione straordinaria degli attori (si distinguono in particolar modo la parca Jan di K. Knightley, il testardo Beck di J. Brolin e lo sconsiderato S. Fischer di J. Gyllenhaal).
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