angeloumana
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lunedì 14 agosto 2017
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l'alta società
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Al piccione che riflette sull’esistenza o “sull’essere un essere umano” non poteva non darsi il Leone d’Oro alla 71ma mostra di Venezia (2014). Il 74enne regista Roy Andersson ne deve aver visto di uomini e macchiette, deve aver riflettuto abbastanza sui ns. comportamenti di società evoluta, di gente “perbene”, sul potere e sugli interessi che ci muovono: “si prese una pausa lunga 25 anni dalla regia di lungometraggi dedicandosi alla realizzazione di spot pubblicitari e di documentari su tematiche politiche e ambientali” (dal suo CV su mymovies).
Non gli si poteva non dare il premio, non sarebbe stato politically correct: il film ci mette di fronte a ciò che siamo (diventati), a come viviamo, agli stupidi clichè riti e luoghi comuni di cui riempiamo i ns.
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Al piccione che riflette sull’esistenza o “sull’essere un essere umano” non poteva non darsi il Leone d’Oro alla 71ma mostra di Venezia (2014). Il 74enne regista Roy Andersson ne deve aver visto di uomini e macchiette, deve aver riflettuto abbastanza sui ns. comportamenti di società evoluta, di gente “perbene”, sul potere e sugli interessi che ci muovono: “si prese una pausa lunga 25 anni dalla regia di lungometraggi dedicandosi alla realizzazione di spot pubblicitari e di documentari su tematiche politiche e ambientali” (dal suo CV su mymovies).
Non gli si poteva non dare il premio, non sarebbe stato politically correct: il film ci mette di fronte a ciò che siamo (diventati), a come viviamo, agli stupidi clichè riti e luoghi comuni di cui riempiamo i ns. comportamenti e a quanto è vuota la ns. modernità. La giuria di Venezia quell’anno deve aver preso atto che Andersson ha fatto tante fotografie di gente comune o di cariche più o meno importanti - 39 sono le scenette recitate - i quadretti rappresentati sono desertici silenziosi grigi spettrali stralunati angoscianti, difficile che ogni spettatore non si riconosca in qualcuna delle caratterizzazione rappresentate. Andersson ci ha messo davanti a uno specchio e così la giuria premiandolo ha ufficializzato l’autocritica che siamo costretti a fare, ha riconosciuto che quei personaggi siamo noi, che così viviamo … Il piccione ci osserva perplesso dal suo ramo e forse sorride, fa sorridere noi ma più ancora ci fa rabbrividire o atterrire, con freddezza svedese.
Vediamo una civiltà quasi immobile o molto lenta, appesantita, prevalentemente vecchia e preda di abitudini: ci accaniamo sul possedere beni ma lo facciamo con belle parole e dando buoni motivi. Moriamo spesso soli ma il mondo gira lo stesso, con le sue regole
fatture e pratiche da sbrigare. Due agenti di commercio di articoli improbabili ricorrono in varie scene: cercano di vendere (stancamente o tristemente) i loro prodotti o le loro ragioni, e non riescono a convincere alcuno che quei prodotti siano utili, che procurano benessere (sono popolari, un classico, vanno per la maggiore, sono sulla cresta dell’onda, aiutiamo la gente a divertirsi, dicono). Qualcuno è sordo, buon per lui, così non è costretto a sentire cazzate. Non mancano le sfilate presidenziali o monarchiche, corredate di re viziati, dispotici e coi loro difetti che però una corte di feudatari giustifica o fa apparire come “presidenziali”, appunto. Ma i bambini impareranno a onorare dio e il re... C’è pure la ns. burocrazia e le macchinose regole che ci siamo dati; ci sono le cose minime (futili) a cui non rinunciamo. Non c’è amore molto spesso nelle nostre parole, quelle che diciamo perché tra gente perbene così si fa, ad es. le cose dette per consuetudine: Sono contento di sentire che state bene!, viene ripetuto con voci lamentose. Uno degli ultimi quadretti è un sogno o un incubo – com’è possibile che per il proprio interesse si possa approfittare delle persone o farle vivere male? A delle persone di colore dei feroci soldati ordinano di entrare in un grosso pentolone sotto il quale viene acceso il fuoco e dei vecchi decrepiti, maschere grottesche dell’alta società, si godono lo spettacolo col flute in mano.
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guardofilmsoloinlinguaoriginal
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mercoledì 1 giugno 2016
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'nsomma
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Inizialmente scettico. Dopo un po' ricreduto.
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juri moretti
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martedì 26 gennaio 2016
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gran film d'autore
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Un piccione seduto su un ramo riflette sul' esistenza.
Non mi aspettavo niente da questo film, anche se dai trailer mi sembrava qualcosa di interessante, anche se alla fine lo trovato un film profondo con una morale grandissima è una regia molto quadrata e fissa, la fotografia con dei colori chiari ma molto cupi che quasi mettono tristezza.
Quindi io questo film non lo definirei un capolavoro ma un gran bel film (d'autore).
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vanessatalanta
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lunedì 4 gennaio 2016
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come piccioni, gli spettatori volano via ...
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Non mi piace scrivere recensioni negative, come minimo è ammettere di aver buttato i soldi del biglietto, ma devo essere onesta. Se è un film che deve farti riflettere sulla morte c’è riuscito: ho considerato il suicidio già dalla seconda scena e augurato atroci indigestioni a chiunque abbia avuto a che fare con la pellicola, come alternativa a 25 anni senza condizionale di visione ininterrotta di questa cosa soprattutto al produttore. Mai vista in vita mia tanta gente alzarsi e uscire durante la proiezione, in preda evidentemente alla stessa nausea che mi ha accompagnato per tutta la pellicola. Ho voluto eroicamente restare fino alla fine, così come sempre termino un libro per quanto mi disgusti, proprio per poterne parlare.
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Non mi piace scrivere recensioni negative, come minimo è ammettere di aver buttato i soldi del biglietto, ma devo essere onesta. Se è un film che deve farti riflettere sulla morte c’è riuscito: ho considerato il suicidio già dalla seconda scena e augurato atroci indigestioni a chiunque abbia avuto a che fare con la pellicola, come alternativa a 25 anni senza condizionale di visione ininterrotta di questa cosa soprattutto al produttore. Mai vista in vita mia tanta gente alzarsi e uscire durante la proiezione, in preda evidentemente alla stessa nausea che mi ha accompagnato per tutta la pellicola. Ho voluto eroicamente restare fino alla fine, così come sempre termino un libro per quanto mi disgusti, proprio per poterne parlare. Propongo, per motivi umanitari, che insieme al biglietto venga fornita una dose di Prozac . Non mi capacito di come si possa accostare alla comicità dissacrante e intelligente dei Monty Python, questo film non ha ritmo, nemmeno quello lento, il nonsense deve essere pungente ed evidente, si deve riuscire a capire cosa vuol colpire, ma il significato dell’assurda scena della taverna con la locandiera cantante, l’armata in costume, la recita degli handicappati, il continuo ritorno di “Glory, glory, alleluja”(John Brown’s body volendo fingere di essere colti) qual è? Cosa c’entra con la vita o la morte, con la disperazione e l’alienazione, le convenzioni? Una comica di Stanlio e Ollio, per non parlare di Charlot, ti dà più spunti di riflessione. Dialoghi? Ripetere 3-4 volte la stessa cretinata è ironia o sarcasmo? Dov’è il nesso? Iperrealismo: ma di che parliamo? Qui la depressione è nell’uso della camera fissa che ci risparmia se non altro di dover sopportare anche i primi piani degli attori, sgradevoli e incapaci perfino di inespressività, è nel colore sempre uguale (che non definisco per buon gusto..) di ogni scena. Temo che la visione di questo film da parte di persone in età fertile possa avere ripercussioni sulla loro progenie, se questa è la Svezia si capisce perché ogni svedese che abbia un seppur vago anelito di vita prende il traghetto per Helsinki in Finlandia ogni volta che può! Conosco svedesi e finlandesi e capisco. Magari è il ritratto dello stato d’animo degli svedesi, oppressi dalla mancanza di luce e colore, con un alto tasso di suicidi, geneticamente incapaci di umorismo. Noi abbiamo Leonardo, voi avete inventato l’Ikea : fermatevi lì. Se a 71 anni il regista ha questa visione della vita mi auguro non abbia mai raccontato favole a figli e nipoti . In sintesi l’idea è:noia, noia, noia mortale. Al Festival di Venezia l’augurio di un’ “acqua alta” che sorprenda gli strapagati critici in abito da sera e senza passerelle. Beato il piccione se trova un significato dell’esistenza: certo Andersen se l’ha trovato se lo porta nella tomba, mi auguro, senza uccidere i nostri cari neuroni superstiti con qualche altro film
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dario
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martedì 29 dicembre 2015
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effimero
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Vale la fotografia, meno la regia e la sceneggiatura. Idee ripetitive, considerazioni magre, banali. Attori come burattini di una recita noiosa.
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lomax
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domenica 1 novembre 2015
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inguardabile!
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Più che indurre lo spettatore a riflettere sull'esistenza lo porta a domandarsi perchè un film del genere. Noioso a cominciare dalla musichetta ripetuta in modo ipnotico (forse con l'intenzione di far addormentare chi lo sta guardando), per passare alle inquadrature fisse su ambienti e soggetti anonimi e privi di colore, nonchè di espressione. Ma soprattutto non c'è traccia di ironia. Aiutate l'inconsapevole spettatore avvisandolo prima che decida di guardarlo
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giulia cortella
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sabato 26 settembre 2015
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la salvezza nei simboli tra presente e passato.
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Il piccione è il simbolo della natura ed è l'unico che riesce a sopravvivere alla città moderna. Ripete il suo verso, e assiste, dall'alto di un ramo, allo scorrere quotidiano della vita che gli appare come un film, a cui poco si interessa. Esemplari della sua specie appaiono all’inizio, impagliati, all’occhio di anziani visitatori di un museo, in una vetrina demodé. Messaggio: l’uomo sa essere crudele e il film lo dimostrerà più volte. Ma è lui, il piccione, che dà il titolo al bel film di Andersson. Da un lato, dunque, la natura e il suo pennuto, dall'altra l'essere umano: gli esemplari di quest’ultima specie, che vive nel terzo millennio, appaiono con il viso coperto di cerone, emaciati, spenti, vecchi, lenti e appesantiti dal benessere o dalla vita che trascorrono senza slanci e sono grigi, come il piccione.
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Il piccione è il simbolo della natura ed è l'unico che riesce a sopravvivere alla città moderna. Ripete il suo verso, e assiste, dall'alto di un ramo, allo scorrere quotidiano della vita che gli appare come un film, a cui poco si interessa. Esemplari della sua specie appaiono all’inizio, impagliati, all’occhio di anziani visitatori di un museo, in una vetrina demodé. Messaggio: l’uomo sa essere crudele e il film lo dimostrerà più volte. Ma è lui, il piccione, che dà il titolo al bel film di Andersson. Da un lato, dunque, la natura e il suo pennuto, dall'altra l'essere umano: gli esemplari di quest’ultima specie, che vive nel terzo millennio, appaiono con il viso coperto di cerone, emaciati, spenti, vecchi, lenti e appesantiti dal benessere o dalla vita che trascorrono senza slanci e sono grigi, come il piccione. Sono maschere che recitano e non riescono a vivere: tra gli altri spiccano due rappresentanti di gadget carnevaleschi che incarnano l'impossibilità alla spensieratezza dell'uomo moderno. Tutti i personaggi del film sono usati come simboli dal regista e rimandano ad un concetto filosofico esistenzialista. L'umorismo è nel sentimento del contrario pirandelliano: la maschera che i due vendono non riesce a cancellare le preoccupazioni economiche, la tristezza e la depressione di chi si sente fallito ed è ormai alla fine della vita. Accanto alla coppia, un isolato capitano che aspetta un personaggio che mai giunge sulla scena, un Godot che ritarda, di beckettiana memoria. Il vecchio ammiraglio potrebbe cogliere qualche utile occasione, potrebbe, ad esempio, entrare di nuovo nel ristorante, dove il suo amico non è arrivato, e sedersi accanto ad una signora per consolarla di un triste amore non corrisposto, ma egli è sordo al richiamo della vita, è vecchio e vuole solo morire. E così via tutti gli altri personaggi che appaiono in ben 37 riquadri in successione (sono 39 in verità ma due episodi si distinguono).Tutti risultano spenti e senza entusiasmo ma il film sa trovare il valore che riporta in equilibrio una situazione così monotona: il regista recupera, con la rievocazione del passato, il segno positivo della virtù della vita e il colore dei suoi personaggi.Il primo simbolo è il cavallo nero dell'araldo che irrompe in un locale, fa sgombrare donne e giocatori di videogame che vengono frustati e annuncia l'arrivo del re. L'epopea settecentesca della Svezia di re Carlo XII, in partenza per la campagna contro la Russia, incarna il valore militare, il coraggio, l'ideale e la bellezza. Il re è efebico, biondo, giovanissimo ed effeminato, vuole solo un bicchiere d'acqua che è buona e dissetante. Anche quel bicchiere d'acqua parla agli spettatori indirettamente e li riporta al recupero della semplicità. E poi la meravigliosa parata militare, il canto dei soldati che intonano una canzone sulla melodia del “Glory! Glory! Halleluyah!” dei miti d'America, con una bella condensazione che spezza la ricostruzione storica, di per sé già decontestualizzata, e ci ricorda la dimensione onirica del quadro. Ma ecco! un nuovo collegamento eroico nel passato: questa volta si tratta di un ricordo più recente dell'infanzia del regista, il ricordo del 1943, quando lui nasceva, e qui la funzione di simbolo è affidata ad una donna, Lotte la zoppa, nel suo caffè a Göteborg, rimasto identico nel tempo, già teatro di precedenti scene del film. Lotte è un’ostessa forte, affascinante, sa cantare e sa attirare lo sguardo su di sé, nonostante il suo handicap. Lotte chiede solo un bacio ai giovani soldati che partono per il fronte: li fa sfilare e poi offre loro un bicchierino in cambio di un meraviglioso reciproco abbraccio che li premia per il loro coraggio e perché essi salveranno la patria, a costo della loro vita.Ecco che cosa manca alla dimensione della contemporaneità: l'eroismo che il benessere e l'omologazione hanno assopito in una coltre grigia, come il piumaggio di un piccione sul ramo.
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antonio tramontano
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sabato 5 settembre 2015
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dramma dal tocco scandinavo in veste di commedia
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Un piccione appollaiato su un altissimo ramo cede a Roy Andersson la sua visuale, quell’eccezionale posizione che permette all’artista di elevarsi quanto basta per descrivere, con le proprie capacità espressive, la commedia umana.
Ci troviamo in una Goteborg grigia e malinconica i cui ambienti, ricostruiti attraverso una precisa scelta scenografica, ospitano momenti della vita di tutti i giorni enfatizzandone spesso i lati più miseri e ridicoli, senza tralasciare, però, quelli più teneri e compassionevoli.
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Un piccione appollaiato su un altissimo ramo cede a Roy Andersson la sua visuale, quell’eccezionale posizione che permette all’artista di elevarsi quanto basta per descrivere, con le proprie capacità espressive, la commedia umana.
Ci troviamo in una Goteborg grigia e malinconica i cui ambienti, ricostruiti attraverso una precisa scelta scenografica, ospitano momenti della vita di tutti i giorni enfatizzandone spesso i lati più miseri e ridicoli, senza tralasciare, però, quelli più teneri e compassionevoli. I personaggi si muovono all’interno di 39 piani-sequenza fissi, quadri cinematografici sui quali si focalizza l’attenzione dello spettatore alla ricerca di una comprensione più definita che, in mancanza di una sceneggiatura canonica, può realizzarsi attraverso l’osservazione delle sole immagini.
La tematica dell’assurdo, che pervade l’intera opera, è affrontata con una notevole dose di ironia, il ritratto dell’essere umano disegnato dal regista esprime tutta la fragilità e debolezza nei confronti di limiti insuperabili quali la morte e l’impossibilità di comprendere un senso. Non mancano elementi surreali, di cui Andersson, in alcune scene, si serve per esternare la propria etica umanitaria, emettendo un giudizio abbastanza netto sull’idiozia e la mancanza di senso che influenzano molte azioni umane. Le convenzioni sociali sono rappresentate come mere maschere dietro cui celare il vuoto interiore e l’ipocrisia di un ottimismo ottuso.
Un dramma dal tocco scandinavo che indossa le vesti della commedia per attenuarne la matrice pessimistica,non disdegnando elementi di forte critica.
Ad uscire intatti dalla forza demolitrice dell’autore, restano valori universali come l’amore di coppia e l’amicizia, ma spesso, anche il piacere di pagare la bevanda con un bacio alla locandiera, può rivelarsi un gesto piacevole e consolatorio teso a colorare di bellezza i momenti prevalentemente grigi della vita.
Un capolavoro che ha meritato pienamente la vittoria del Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2014, bastonato e (forse) incompreso da parte della critica troppo abituata ai tempi e ai canoni classici di un cinema di scarsa qualità.
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bericopredieri
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sabato 5 settembre 2015
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idiozia suprema.
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Grottesco, surreale, spiazzante, sorprendente, gli aggettivi si sono sprecati per questo film, ma io direi soltanto, deprimente.
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luanaa
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domenica 28 giugno 2015
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terribile
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Inguardabile; pesante; bruttissimo..a tratti la metafora è incomprensibile.Costruito tanto da anticipare le battute. Insomma un flop da Venezia.
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