kimkiduk
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mercoledì 25 febbraio 2015
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radical chic?
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Film dal messaggio chiaro: l'uomo e le sue contraddizioni ed inutilità. Resoconto di una società fatta di finti rapporti, da discorsi inutili, in una vita ripetitiva e noiosa. Critica assoluta per chi come un re si assurge ad essere superiore e nel momento della sconfitta dovrà accorgersi della sua NON superiorità. Il mutare dei giorni diversi solo nel nome, la mancanza di un amico solo per prevaricare e non sentirsi soli. La richiesta di amore spesso rifiutata. Regole decise per il rispetto di ognuno di noi ma create solo per non dover dare rispetto. E' un film intelligente, acuto, difficile forse noioso se non si guarda come il regista ha voluto farlo leggere.
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Film dal messaggio chiaro: l'uomo e le sue contraddizioni ed inutilità. Resoconto di una società fatta di finti rapporti, da discorsi inutili, in una vita ripetitiva e noiosa. Critica assoluta per chi come un re si assurge ad essere superiore e nel momento della sconfitta dovrà accorgersi della sua NON superiorità. Il mutare dei giorni diversi solo nel nome, la mancanza di un amico solo per prevaricare e non sentirsi soli. La richiesta di amore spesso rifiutata. Regole decise per il rispetto di ognuno di noi ma create solo per non dover dare rispetto. E' un film intelligente, acuto, difficile forse noioso se non si guarda come il regista ha voluto farlo leggere. Unica critica vera forse il volersi mettere al di sopra, quasi irriverente nei confronti di una facile visione. Film che se ne frega di piacere o divertire nei modi consueti. Pensando che a Venezia ha vinto il Leone d'Oro e che era presente Birdman che non raccolse niente, dobbiamo ragionare sulla scelga di festival votati alla cassetta ed al botteghino e su festival che premiano un modo di fare cinema. Pensando che a Venezia in tre anni hanno vinto Sokurov, Kim Ki Duk ed Andersson, che raccoglieranno in 3 l'incasso di un giorno di 50 sfumature di grigio in Italia, forse le scelte non sono casuali. Ognuno giudichi per come la pensa.
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catcarlo
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martedì 24 febbraio 2015
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un piccione seduto su un ramo riflette sull'esiste
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Spettatori all’interno di un cinema: perplessi. La citazione del film di Alexander Kluge è con molta probabilità più pertinente riguardo all’ermetico procedere di entrambe le pellicole –premiate a Venezia a distanza di quarantasei anni – che nei confronti del pubblico presente. Il quale, numeroso in maniera sorprendente, è sembrato tutt’altro che dubbioso nel proprio giudizio: chi dopo un’ora si è alzato e se ne è andato, chi ha tirato un rumoroso sospiro di sollievo ai titoli di coda, chi si è lasciato andare a giudizi poco lusinghieri (eufemismo) in modo che tutti sentissero. Reazioni senza dubbio eccessive, ma comprensibili nel loro rifiutare un’opera estremamente concettuale e complessa che fa di tutto per prendere contropelo chi guarda: eccessivo, però, pare anche il Leone d’Oro assegnato a un lavoro di grande, quasi ipnotico rigore formale, ma che nell’ultimo terzo perde qualche colpo per voler troppo aggiungere o forse troppo insistere.
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Spettatori all’interno di un cinema: perplessi. La citazione del film di Alexander Kluge è con molta probabilità più pertinente riguardo all’ermetico procedere di entrambe le pellicole –premiate a Venezia a distanza di quarantasei anni – che nei confronti del pubblico presente. Il quale, numeroso in maniera sorprendente, è sembrato tutt’altro che dubbioso nel proprio giudizio: chi dopo un’ora si è alzato e se ne è andato, chi ha tirato un rumoroso sospiro di sollievo ai titoli di coda, chi si è lasciato andare a giudizi poco lusinghieri (eufemismo) in modo che tutti sentissero. Reazioni senza dubbio eccessive, ma comprensibili nel loro rifiutare un’opera estremamente concettuale e complessa che fa di tutto per prendere contropelo chi guarda: eccessivo, però, pare anche il Leone d’Oro assegnato a un lavoro di grande, quasi ipnotico rigore formale, ma che nell’ultimo terzo perde qualche colpo per voler troppo aggiungere o forse troppo insistere. Insomma, un classico film da festival che, grazie al premio, anche i comuni spettatori hanno potuto vedere: minacciosi fin dal titolo – i titoli troppo lunghi (questo ispirato a un quadro di Bruegel) sono spesso segnale di difficoltà in arrivo – questi circa cento minuti partono da una riflessione sulla banalità dell’esistenza e la sviluppano in un modo che si avvicina assai all’astrazione. Eppure, attenzione: benché il tema e soprattutto il suo svolgimento siano quanto mai ardui e scostanti, per oltre un’ora Andersson riesce a farsi seguire senza che si avverta lo scorrere del tempo. Visto che si tratta di un film in cui, tanto per dirne una, non c’è un movimento di macchina, la capacità di mantenere l’attenzione sulla ripetitività del vivere quotidiano testimonia della qualità del lavoro del regista e sceneggiatore svedese. In ogni caso, la vita come tran-tran è legata in modo inestricabile con la morte, come testimoniano i tre quadri iniziali a quest’ultima espressamente dedicati in didascalia: dall’uomo che defunge stappando una bottiglia a quello già stecchito al self-service di un traghetto (col tizio che gli beve la birra già pagata) passando per l’avidità dei figli davanti alla madre morente inizia quel teatro dell’assurdo, condito di ironia acida e umorismo nero, che si sviluppa per il resto del lavoro. Di episodi ne seguono altri trentasei, tutti costruiti allo stesso modo: inquadratura fissa con molte figure immobili quasi a comporre un quadro, tempi dilatati, grandi silenzi (alcuni segmenti sono del tutto muti) interrotti da pochi dialoghi a volte senza senso, a volte all’apparenza fuori luogo. Il tutto finisce per regalare una sensazione di malessere, accentuata dalle tonalità freddissime della fotografia di István Borbás e Gergely Pálos nonchè dalle facce imbiancate degli attori, a partire da quelli che interpretano i due personaggi che fanno da (tenue) filo conduttore. Sam e Jonathan sono due agenti di commercio da strapazzo che cercano di piazzare il loro assurdo campionario da ‘intrattenimento’ – al livello di ‘tacchi, dadi, datteri’ – e nel frattempo si piangono addosso: attorno a loro si muove (si fa per dire) un campionario di figure stralunate (l’insegnante di flamenco dal cuore spezzato, il militare che ripete ‘naturalmente’, il capitano di nave riconvertito in barbiere e via elencando) in gran parte ingobbite e programmaticamente scostanti. In più ci sono un salto all’indietro nel tempo e l’irrompere del passato in un bar sotto le sembianze di Carlo XII e del suo esercito prima e dopo la battaglia di Poltava (c’è un raggio di sole nelle due scene subito seguenti – la mamma con la carrozzina, gli amanti sulla spiaggia – oppure no?): a furia di spezzettare, il gioco si fa meno efficace perché la coesione viene a mancare, lasciando spazio a un tedio fino a quel punto tenuto a bada. Non servono più neppure i tormentoni che percorrono tutto il film, come il tema di John Brown’s Body che caratterizza qualsiasi spunto musicale o sempre le stesse parole ripetute da chiunque parli in un telefono: a risentirne è soprattutto l’ancor più cupo finale (non a caso introdotto dalla didascalia ‘homo sapiens’) in cui si accentua il profondo pessimismo per un’umanità in via di regressione, tanto che, in fondo, l’unica scena che mostri un sussulto vitale è quella ambientata nel 1943. Così il Piccione unisce ai coraggiosi pregi anche qualche difetto, favorendo la perplessità di cui sopra: in fondo, è proprio così importante sapere se oggi è mercoledì o giovedì?
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ssinaima
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martedì 24 febbraio 2015
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una violenza insostenibile e gratuita
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Ho appena visto "un piccione" e penso che avro bisogno di molto tempo per rimettermi da questa esperienza. Il film ha delle pretese artistiche e, sembra filosofiche, che lasciano molto spazio ai gusti personali, e potrebbe percio non essere oggetto di giudizio. Il problema é che il film, in modo inaspettato, segreta scene di violenza insostenibili e neanche descrivibili che sembrano fini a se stesse e che non servono nessuna delle finalità, sia estetiche, sia cd filosofiche del film. E una violenza subdola che penetra lo spettatore e lo lascia con un sentimento di stupro morale. Diventano allora minori le pretese del film, che gioca su un "estetica" minimalista e ripettitiva e un senso dell'assurdo sostanzialmente privo della comicità che puo invece scattare in questo tipo di repertorio.
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Ho appena visto "un piccione" e penso che avro bisogno di molto tempo per rimettermi da questa esperienza. Il film ha delle pretese artistiche e, sembra filosofiche, che lasciano molto spazio ai gusti personali, e potrebbe percio non essere oggetto di giudizio. Il problema é che il film, in modo inaspettato, segreta scene di violenza insostenibili e neanche descrivibili che sembrano fini a se stesse e che non servono nessuna delle finalità, sia estetiche, sia cd filosofiche del film. E una violenza subdola che penetra lo spettatore e lo lascia con un sentimento di stupro morale. Diventano allora minori le pretese del film, che gioca su un "estetica" minimalista e ripettitiva e un senso dell'assurdo sostanzialmente privo della comicità che puo invece scattare in questo tipo di repertorio. Non rimane al povero spettatore che provare a superare il legittimo sentimento di tradimento o di trappola che genera la visione di questo film... promettendosi, senza essere sicuro di riuscirci, di non ricarderci. Alla fine i piccioni siamo noi spettatori.
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m.barenghi
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lunedì 23 febbraio 2015
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...che tristezza!!
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Una serie interminabile di brevi scenette, quasi mai comiche -al più patetiche- riprese con macchina fissa in ambienti scarni, abiati da personaggi amimici, collegate fra loro da un "fil-rouge" improbabile: una coppia di sfigatissimi e falliti rappresentanti di prodotti per il carnevale che con tono funebre si ostinano a proporre "per far divertire" ma che non interessano a nessuno. E infatti nel film non si ride mai: si aspetta soltanto che termini questa assurda antologia di personaggi insulsi e scollegati per potersene tornare a casa a leggere un buon libro. A proiezione finita mi sono posto alcune domande, nell'ordine:
1) come sia possibile concepire l'idea di girare un film del genere
2) una volta ultimato, come possa venire in mente di proporlo per un Festival
3) come possa essere accaduto che la Giuria del suddetto l'abbia selezionato, e infine
4) a quale titolo l'abbia accreditato del massimo premio del concorso, il sacro Leone d'Oro.
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Una serie interminabile di brevi scenette, quasi mai comiche -al più patetiche- riprese con macchina fissa in ambienti scarni, abiati da personaggi amimici, collegate fra loro da un "fil-rouge" improbabile: una coppia di sfigatissimi e falliti rappresentanti di prodotti per il carnevale che con tono funebre si ostinano a proporre "per far divertire" ma che non interessano a nessuno. E infatti nel film non si ride mai: si aspetta soltanto che termini questa assurda antologia di personaggi insulsi e scollegati per potersene tornare a casa a leggere un buon libro. A proiezione finita mi sono posto alcune domande, nell'ordine:
1) come sia possibile concepire l'idea di girare un film del genere
2) una volta ultimato, come possa venire in mente di proporlo per un Festival
3) come possa essere accaduto che la Giuria del suddetto l'abbia selezionato, e infine
4) a quale titolo l'abbia accreditato del massimo premio del concorso, il sacro Leone d'Oro.
Queste domande sono rimaste tuttora senza risposta. Non me ne faccio una ragione. Speravo che dopo gli anni del delirio surrealista non vi fosse più posto per opere del genere. Purtroppo mi sbagliavo di grosso. E Jodorowskj in fondo non era che un dilettante
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epassp
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lunedì 23 febbraio 2015
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i "visi pallidi"
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Una triste comicità, vista dall'occhio di cineprese ad inquadratura fissa; colori pastello giallo/beige sempre abbinati ai volti cadaverici dei protagonisti. Film con un solo effetto speciale, ma neanche tanto; molto lontano dall'essere in perfetto stile hollywoodiano da 100milioni di dollari e colmo di star, è stato sapientemente realizzato senza troppi sprechi di denaro. Narria la paranoica miseria umana con sano e grottesco realismo.
Insegna come, senza tanti sprechi, si può realizzare un ottimo film.
Particolarissimo!
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johnny123
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lunedì 23 febbraio 2015
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mai vista una cosa del genere
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Un po' scettico sono andato a vederlo invitato da amici. Per la prima volta in vita mia mi sono alzato dopo mezz'ora e me ne sono andato. Un bluff, un non film senza nessun senso. Non aggiungo altro. Evitatelo
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ugo54
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lunedì 23 febbraio 2015
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forse si dovrebbe riflettere di più?
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Condivido il parere di Peer Gynt. Film intellettuale ed autocompiaciuto, anche troppo, erroneamente paragonato a quelli di Kaurismaki che pur nel loro surrealismo e semicatatonia avevano comunque un senso compiuto e di grande fascino. In sala non ha riso nessuno e gli spettatori, quelli che sono rimasti fino alla fine, hanno abbandonato la sala in silenzio assai perplessi, pur meditando sul ramo...La suggestione dei 39 tableaux vivants lascia il tempo che trova se non ha uno sviluppo credibile. Cioè a dire che potevano inserire altri 39 piani sequenza di questo stesso tenore e la cosa non aveva nessuna conseguenza sulla fruizione del film. Il regista voleva riflettere sulla stupidità del genere umano? L'avevamo capito ma mi pare abbia utilizzato metodi ed immagini in cui il cinismo è straniante e ripetitivo, tanto che alla lunga ingenera noia.
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Condivido il parere di Peer Gynt. Film intellettuale ed autocompiaciuto, anche troppo, erroneamente paragonato a quelli di Kaurismaki che pur nel loro surrealismo e semicatatonia avevano comunque un senso compiuto e di grande fascino. In sala non ha riso nessuno e gli spettatori, quelli che sono rimasti fino alla fine, hanno abbandonato la sala in silenzio assai perplessi, pur meditando sul ramo...La suggestione dei 39 tableaux vivants lascia il tempo che trova se non ha uno sviluppo credibile. Cioè a dire che potevano inserire altri 39 piani sequenza di questo stesso tenore e la cosa non aveva nessuna conseguenza sulla fruizione del film. Il regista voleva riflettere sulla stupidità del genere umano? L'avevamo capito ma mi pare abbia utilizzato metodi ed immagini in cui il cinismo è straniante e ripetitivo, tanto che alla lunga ingenera noia. Film insolito, certo, e non per questo censurabile, ma l'eccessivo tecnicismo formale ne soffoca qualsiasi messaggio umanamente accettabile.
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nerone bianchi
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lunedì 23 febbraio 2015
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finale di partita
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Molto tempo fa, tanto da perdersi nei ricordi, quando ero molto giovane, vidi “Il Fantasma della Libertà” di Luis Bunuel, e a teatro l'immortale “Aspettando Godot” di Beckett, visioni diverse sull'esistenza ma pur sempre figlie di quell'impronta geniale che sa entrare con garbo ed ironia nel fenomeno della vita. Questo film di Andersson mi ha profondamente deluso poiché ripetitivo e ad un certo punto prevedibile, al punto che senza riflettere ulteriormente mi sono serenamente addormentato. Non stò a chiedermi perchè il sonno in alcune opere vince, ne cerco nella giornata ragioni plausibili che lo possano aver determinato, quando accade è il segno inequivocabile che ciò che vedo non ha avuto una presa solida sul mio immaginario e sulla mia curiosità, il sistema di difesa lo ha cestinato.
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Molto tempo fa, tanto da perdersi nei ricordi, quando ero molto giovane, vidi “Il Fantasma della Libertà” di Luis Bunuel, e a teatro l'immortale “Aspettando Godot” di Beckett, visioni diverse sull'esistenza ma pur sempre figlie di quell'impronta geniale che sa entrare con garbo ed ironia nel fenomeno della vita. Questo film di Andersson mi ha profondamente deluso poiché ripetitivo e ad un certo punto prevedibile, al punto che senza riflettere ulteriormente mi sono serenamente addormentato. Non stò a chiedermi perchè il sonno in alcune opere vince, ne cerco nella giornata ragioni plausibili che lo possano aver determinato, quando accade è il segno inequivocabile che ciò che vedo non ha avuto una presa solida sul mio immaginario e sulla mia curiosità, il sistema di difesa lo ha cestinato. Ho apprezzato la raffinata e straordinaria maniera con cui il film è stato girato, le sue inquadrature fisse e curate, i dettagli nelle immagini, gli attori straordinari ma alla fine questo evidentemente non è bastato. Credo che un'opera come “Finale di Partita” abbia detto tutto quello che c'era da dire sull'argomento e con una profondità senza uguali. Rispetto il verdetto della giuria di Venezia ma con tutte le migliori intenzioni non riesco a condividerlo.
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sasa83
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lunedì 23 febbraio 2015
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un piccione caduto dal ramo
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Film tenuto a galla esclusivamente dal tocco registico e dall'originalità della sua realizzazione, 100 minuti di sfida alla noia che regna sovrana tra i grigi delle scene, l'incomunicabilità, la mancanza di una trama e del tanto sbandierato umorismo che, salvo un paio di circostanze, latita del tutto. E credo che anche la vita di tutti i giorni sia un pochino più briosa del quadro dipinto da andersson...
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amgiad
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lunedì 23 febbraio 2015
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lo spettatore seduto in poltrona riflette ...
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Per primo occorre riconoscere al regista lo sforzo di uscire dal consueto sviluppo filmico. E' un opera dell' assurdo, e come tale non gli si chiede la plausibilità di molte scene. E' un continuo invito a ripensare al vuoto che si cela dietro tante vite, nelle quali i giorni scorrono ignoti e ignari. Vite nelle quali il mercoledì è uguale al giovedì ma potrebbe essere anche il martedì. Luoghi comuni ripetuti in modo ossimorico (a parole manifestare piacere, tenendo in mano la pistola con cui ci suicideremo). E ancora, tristissimi rappresentanti di tristissimi scherzi carnevaleschi, sbalzi temporali nella storia svedese con triste riflessione sui risultati della guerra, cavie lasciate a soffrire in inutili esperimenti mentre vacuamente si dialoga al telefono.
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Per primo occorre riconoscere al regista lo sforzo di uscire dal consueto sviluppo filmico. E' un opera dell' assurdo, e come tale non gli si chiede la plausibilità di molte scene. E' un continuo invito a ripensare al vuoto che si cela dietro tante vite, nelle quali i giorni scorrono ignoti e ignari. Vite nelle quali il mercoledì è uguale al giovedì ma potrebbe essere anche il martedì. Luoghi comuni ripetuti in modo ossimorico (a parole manifestare piacere, tenendo in mano la pistola con cui ci suicideremo). E ancora, tristissimi rappresentanti di tristissimi scherzi carnevaleschi, sbalzi temporali nella storia svedese con triste riflessione sui risultati della guerra, cavie lasciate a soffrire in inutili esperimenti mentre vacuamente si dialoga al telefono. Ben si capisce come mai l' opulenta società svedese presenti le più alte percentuali di suicidi. Le scenografie e l' illuminazione usata restituisce molto bene la luce di Bruegel il vecchio, da un cui dipinto sembra aver tratto idea il regista. Potrei dire che per la Svezia è un nuovo "I mostri". Per noi più che la immaginifica nazione dei nostri sogni adolescienziali ci sembra di riconoscere la triste DDR o la Russia di uguale periodo. Ma il regista non aveva sicuramente intenti politici. Un' ultima cosa: in sala ero con un gruppo di amici e quasi tutti abbiamo avvicinato molte scene a quelle sviluppate in Italia da Ciprì e Maresco (logicamente, essendo italiane, quest' ultime più brutte, sporche e sanguigne). Personalmente riservo un leone anche alla loro, un po' disprezzata, produzione.
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