stefano b.
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venerdì 26 giugno 2015
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un piccione imbarazzante
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mia moglie voleva andare a vedere Se Dio vuole ma ogni tanto accetta anche le mie proposte.
nella recensione avevo letto che era anche un film umoristico anche se rifletteva sull'Essere.
all'infuori di qualche scena ossessiva che faceva ridere più per la scelta maniacale del regista che non per quanto espresso, il resto l'ho trovato deprimente e sado/masochista.
l'umanità fa schifo. lo sappiamo. il mondo è un affastellamento di controsensi e opposti. una babele. una babele di brugel. non credo ce ne fosse bisogno.
e mia moglie adesso mi vieta di scegliere i film.
1 stella perché non ci sono meteore.
ma io non sono un giurato del festival di venezia. e magari mi sbaglio.
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francesco2
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giovedì 11 giugno 2015
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un cinefilo riflette sui film da festival
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Nel 2014 le giurie di Cannes e Venezia avevano a disposizione almeno due titoli "forti" da premiare coi rispettivi, massimi riconoscimenti: "Mommy"e "Birdman", che chi scrive non ha ancora recensito. Titoli forti, anche se non capolavori, perché entrambi soffrono di quella magniloquenza che nel caso di Inarritu è anche ripetitiva.
Ed invece, alle opere citate sono stati preferiti "Winter Sleep" e l'opera di cui stiamo per parlare. Nei confronti della quale non sono mancati paragoni -Tra l'altro- con Kaurismaki:
un umorismo gelido e raggelante, almeno nelle intenzioni, un pessimismo -Forse- di fondo, ed ovviamente la provenienza geografica.
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Nel 2014 le giurie di Cannes e Venezia avevano a disposizione almeno due titoli "forti" da premiare coi rispettivi, massimi riconoscimenti: "Mommy"e "Birdman", che chi scrive non ha ancora recensito. Titoli forti, anche se non capolavori, perché entrambi soffrono di quella magniloquenza che nel caso di Inarritu è anche ripetitiva.
Ed invece, alle opere citate sono stati preferiti "Winter Sleep" e l'opera di cui stiamo per parlare. Nei confronti della quale non sono mancati paragoni -Tra l'altro- con Kaurismaki:
un umorismo gelido e raggelante, almeno nelle intenzioni, un pessimismo -Forse- di fondo, ed ovviamente la provenienza geografica.
Ma c'è un "Però", che persino il sottoscritto ha faticato a trovare.
E cioé: qualunque sia la vostra e nostra valutazione sui film di Kaurismaki, citiamo UN suo film che dia l'impressione di una serie di scenette. A me, che ne ho visti diversi, non ne viene in mente praticamente NESSUNO, perché anche "Leningrad Cowboys go to Amerika" è pur sempre una storia, con la sua "Integralità" di fondo.
Anderson, invece, che liquidato come regista di cinema si era dedicato alla pubblicità, costruisce tanti quadretti, che alle volte risultano anche spassosi e commoventi, restando però lontano da quella "Coralità" che secondo me dovrebbe distinguere un regista di film, si chiami Altman o Iosseliani. In questi casi c'è una magia, anche caustica nel caso dell'autore di "Kansas City": le piccole grandi vicende raccontate possono anche non avere un legame tra di loro, ma esiste un significato di fondo che crea una coesione.
Quella che, invece, non si registra in questo film: alle volte, semmai, viene in mente il Mike Leigh un pò stucchevole di "Another Year" o altri suoi vecchi film. Certo, momenti come quello dei "Neri" o del bar a ritroso nel tempo collocano il film, parzialmente, su un altro livello.
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enrico danelli
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venerdì 17 aprile 2015
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presuntuso
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Un tentativo ambizioso, ma non riuscito di trasporre nel cinema la rappresentazione dei vizi umani rintracciabile in modo eccelso nei quadri di Pieter Brughel e vari altri pittori fiamminghi del 1400-1500. Se non risultasse abbastanza chiaro, la parabola dei ciechi (vangelo secondo Matteo XV, 14 : se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa) ripresa da Brughel in quadro del 1568 viene trasposta in una scena del film in una fugace, ma significativa apparizione. Peraltro del quadro stesso il film riprende i colori spenti e freddi (il grigio è predominante in ogni scena, i colori accesi sono del tutto assenti, gli ambienti aperti sono rarissimi, i vecchi e i malati rappresentano la percentuale predominate delle comparse) e il potpourri di scene e situazioni più che un film ad episodi cerca di richiamare alla memoria i quadri di Hyeronimus Bosh in cui si rintracciano una infinità di temi e soggetti al di qua e al di là del limite dell'onirico e dell'immaginifico .
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Un tentativo ambizioso, ma non riuscito di trasporre nel cinema la rappresentazione dei vizi umani rintracciabile in modo eccelso nei quadri di Pieter Brughel e vari altri pittori fiamminghi del 1400-1500. Se non risultasse abbastanza chiaro, la parabola dei ciechi (vangelo secondo Matteo XV, 14 : se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa) ripresa da Brughel in quadro del 1568 viene trasposta in una scena del film in una fugace, ma significativa apparizione. Peraltro del quadro stesso il film riprende i colori spenti e freddi (il grigio è predominante in ogni scena, i colori accesi sono del tutto assenti, gli ambienti aperti sono rarissimi, i vecchi e i malati rappresentano la percentuale predominate delle comparse) e il potpourri di scene e situazioni più che un film ad episodi cerca di richiamare alla memoria i quadri di Hyeronimus Bosh in cui si rintracciano una infinità di temi e soggetti al di qua e al di là del limite dell'onirico e dell'immaginifico . Se quindi il tentavo è ambizioso, il risultato è veramente deludente: gli unici collanti di situazioni così diverse nel film sono : A) il commesso viaggiatore (uno dei due, quello più problematico e profondo) che rappresenta il "piccione seduto sull'albero a riflettere sull'esistenza"; B) un mantra ripetuto in quasi ogni episodio ("sono contento di sapere che state tutti bene") a sottolineare che l'illusione umana è predominate e onnipresente e probabilmente rappresenta il vero e unico problema da cui nascono tutti gli altri. Risulta invece illusorio il tentativo del film di convincere lo spettatore che l'umanità è tutta qui: un cumulo di perversità, egoismi, nefandezze e beate illusioni. Per fortuna c'è dell'altro, ma non in questo film.
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howlingfantod
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mercoledì 15 aprile 2015
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assurdamente geniale e poetico
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Che forse i piccioni seduti su un ramo non siamo noi spettatori? Noi a mirare questi quadretti slegati di “protagonisti” più macchiette o statue di cera grottesche e impacciate, mai un primo piano, come se non fossero dotati di una propria espressività e di un anima ma solo funzionali a racconti e situazioni grottesche e surreali da avanspettacolo, tanti piccoli episodi grotteschi e irresistibili nella loro folle comicità, certo non immediata e di facile consumo, ma quasi riflessiva e pensante da quanto assurda eppur divertentissima, un ironia con sorriso sotto baffi e tipica di un umorismo tutto nordico, un po’ da sit-com anni 80.
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Che forse i piccioni seduti su un ramo non siamo noi spettatori? Noi a mirare questi quadretti slegati di “protagonisti” più macchiette o statue di cera grottesche e impacciate, mai un primo piano, come se non fossero dotati di una propria espressività e di un anima ma solo funzionali a racconti e situazioni grottesche e surreali da avanspettacolo, tanti piccoli episodi grotteschi e irresistibili nella loro folle comicità, certo non immediata e di facile consumo, ma quasi riflessiva e pensante da quanto assurda eppur divertentissima, un ironia con sorriso sotto baffi e tipica di un umorismo tutto nordico, un po’ da sit-com anni 80. La scenografia è l’algida e senza tempo terra nordica in anonime periferie, mai un quadro, una macchia di colore, cieli grigi, interni grigi ed anche inquietanti come la specie di casa di correzione o centro di accoglienza per senzatetto dove folleggiano i due improbabili venditori di scherzi di carnevale, gli Stanlio ed Ollio dei nostri tempi in terra scandinava..indimenticabili. C’è Beckett, Ionesco il teatro dell’assurdo tutto, la coazione a ripetere di gesti, frasi e tic di un umanità lobotomizzata ed inconsapevole, noi piccioni sul ramo possiamo solo osservare tanto sfacelo ridendocela (almeno io) di gusto, Felliniano in alcune parti come nella creazione di marchingegni quali quella strana fornace cilindrica dove vengono messi ad abbrustolire degli schiavi con la polizia che ogni tanto guarda in camera. Il fragore di sottofondo appena percettibile in alcune fasi che sa di una qualche minaccia, il basso continuo della musichetta monocorde che accompagna tutto il film. L’ufficiale che attende, attende sempre un appuntamento mancato, l’indimenticabile armata alla birreria e i dialoghi stralunati dei protagonisti. La storia, la vita così incomprensibile, così assurda ed adatta alla parole del Bardo: “la vita e la storia (appunto rappresentata dall’incommensurabile armata di Carlo XII che va in birreria e poi ripassa dopo poco sconfitta dal “perfido russo”) è un racconto narrato da un idiota, pieno di suoni e di furia senza alcun significato”, come se non fosse più possibile alcuna narrazione lineare in questo mondo, nessuna grazia, non all’ epoca di internet, come se la poesia dopo Auschwitz… si sa non si può fare e tutto il resto che ci avevano già detto tutti i geni dell’assurdo, teatrale e non, eppure Roy Andersson, un perfetto sconosciuto alla cinematografia mondiale (almeno fino ad oggi) ce lo ripete con grazia e poesia, per palati sopraffini certo ma per tutti un consiglio andatelo a guardare e riguardatelo ancora!!!!! e una recensione come questa ve la sognate (detto fra noi).
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drumtaps
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domenica 22 marzo 2015
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immagini che restano
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..sicuramente un film originale nella forma e nella sostanza, con atmosfere simili al cinema di Kaurismaki, ma ancora più integraliste.
Personalmente valuto un film nella capacità di imprimere immagini e situazioni che restano nel tempo e questo rientra senza dubbio nella categoria.
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pepito1948
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martedì 17 marzo 2015
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andersson tra kaurismaki e bergman
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L’inizio inquadra e spiega il titolo, dando una prima chiave di lettura: in un museo zoologico un visitatore si sofferma a guardare un piccione impagliato che, appollaiato su un ramo in visuale comprendente uno scheletro di dinosauro ed un dipinto con aquile, sembra assorto e pensoso. Tradotto in termini concettuali l’immagine ci presenta qualcuno (forse il regista stesso) mentre medita sulla condizione umana, fossilizzata (il dinosauro) in uno stato di degenerazione in cui la rapacità (le aquile) e molti altri vizi altrettanto erosivi sono i connotati salienti delle società odierne.
Il tema è sviluppato attraverso una quarantina di quadri, costituiti in gran parte da interni come stanze, pub, nave ecc.
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L’inizio inquadra e spiega il titolo, dando una prima chiave di lettura: in un museo zoologico un visitatore si sofferma a guardare un piccione impagliato che, appollaiato su un ramo in visuale comprendente uno scheletro di dinosauro ed un dipinto con aquile, sembra assorto e pensoso. Tradotto in termini concettuali l’immagine ci presenta qualcuno (forse il regista stesso) mentre medita sulla condizione umana, fossilizzata (il dinosauro) in uno stato di degenerazione in cui la rapacità (le aquile) e molti altri vizi altrettanto erosivi sono i connotati salienti delle società odierne.
Il tema è sviluppato attraverso una quarantina di quadri, costituiti in gran parte da interni come stanze, pub, nave ecc. volutamente essenziali e spogli, realisticamente finti (per usare un ossimoro esplicativo). Tutto è o sembra immobile, i personaggi si muovono con la massima lentezza, i colori sono quasi snaturati. Gente che va e viene intorno a una coppia di venditori ambulanti di scherzi di carnevale in un mondo in cui non si ride più e perciò venditori di niente, tenaci nel dare un senso inesistente ad una vita priva di spunti emotivi, piatta e piagata dalla apatia o dall’indifferenza più totale. I sentimenti sono solo parvenza senza contenuto, i due provano a litigare e a scambiarsi messaggi affettivi ma è come annaffiare un fiore di plastica, i volti sono inespressivi, anzi marcatamente bianchi, biaccati come fossero clown o maschere fisse, severe, senza sangue. Persino davanti alla morte la reazione degli astanti è asfittica, razionale, anaffettiva, come davanti ad un cadavere su una nave in cui solo la birra appena ordinata dal morto suscita un qualche interesse o al capezzale di una vecchia agonizzante, che non molla la presa di una borsa piena di tesori che fa gola ai parenti molto più avidi che confortanti. Qualche scampolo di emotività serpeggia qua e là ma sono piccoli segmenti sparsi, tracce estemporanee ovattate ed appena visibili dietro la vetrina di un ristorante. I riti nelle case si ripetono monotonamente, e la domanda più frequente è: sono contento che voi stiate bene, rituale anche questa e sconnessa da ogni corrispondente pulsione mentale. La parola è convenzione, non comunicazione.
Uno scenario che, raccontato così, sembrerebbe post-apocalittico se Roy Andersson non infondesse nel tutto uno spirito tragicomico basato sul non-sense tipicamente nordico, completamente diverso da quello occidentale che conosciamo noi, da Helzapoppin al demenziale di Leslie Nielsen, in cui la comicità è fine a se stessa. Non è quello di Buster Keaton e di molti altri comici che hanno messo le loro gag al servizio di una più o meno tenue critica sociale. Non è lontano dal realismo favolistico dal finlandese Kaurismaki, sicuramente più ottimistico, né dalle tematiche di Bergman, che tuttavia rifugge da ogni senso dell’assurdità.
L’humor invasivo di Andersson, dietro il non-sense che infrange la cronologia della Storia (con l’entrata in scena di un contingente di soldati a cavallo ed una sfilata di reduci di guerra di altri secoli) e rompe ogni logica filmica cui siamo abituati, sferza i limiti di una società, almeno quella dei Paesi scandinavi dovunque additati come esempi di progresso e di qualità della vita, come appunto l’indifferenza, l’ingordigia, il vagare senza meta, il vuoto interiore, l’annullamento degli affetti; e lo fa con il frustino vellutato ma efficace di un tuffo nella dimensione del surreale che volteggia come dentro una sfera di vetro sul mondo contemporaneo, e ci induce tra una sorpresa ed un sorriso a chiederci quale sia il senso oltre il non senso, della vita reale che conduciamo ingabbiati in una rete di riti, di convenzioni, di apatia, di depauperamento interiore che sempre di più vediamo dilagare nelle società umane. Lo fa con uno stile gradevole quanto spiazzante, scegliendo soluzioni imprevedibili e una scenografia scarnificata come ciò che vuole rappresentare, con una scia di pensieri montanti che saltellano dilatandosi sui titoli di coda.
Il piccione Andersson ha posto il problema ed i suoi quesiti. A noi il compito di salire sul ramo e cercare le risposte.
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giaric321
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sabato 14 marzo 2015
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leone d'oro? : piu che meritato
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bel film amaro, poten te e visimamente bellissimo divertente e ironia raffinata uno dei film piu belli dell'anno
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fefa62
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sabato 7 marzo 2015
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hanno i miei soldi non la mia stima ...
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il film di sicuro produrrà utili non tanto per gli spettatori quanto x i modesti mezzi messi in campo, non credo che oggettivamente l'utente medio esca dalla sala soddisfatto e anzi nel mio caso ha prodotto l'iscrizione per lasciare un commento negativo .... Questo genere di film andrebbe segnalato all'utenza in modo da lasciare la visione riservata agli esperti .... Alo' dai !
[+] chissemenefrega dell'utente medio!!!
(di howlingfantod)
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adelio
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mercoledì 4 marzo 2015
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la mediocrità del fanghetto e .. le povertà umane
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Film decisamente di taglio nordico, essenziale... direi inesorabile sia sotto l'aspetto contenutistico che di tecnica cinematografica.
L'impostazione è quella della transposizione del teatro sul grande schermo. Ci scorrono, a modi palcoscenico, circa 40 quadri a ripresa fissa ..che da spettatori increduli leggiamo come surreali, assurdi e financo atroci per il nostro abituale sentire umano.
Sono pezzi di vita vera che noi uomini "sociali" e" tecnologici" neanche più riconosciamo benchè vissuti e quotidianamente presenti sotto i nostri occhi. Situazioni al limite del teatro di Beckett, con 2 piazzisti di "scherzi di carnevale" nei panni di moderni Didi e Gogo di "Waiting for Godot".
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Film decisamente di taglio nordico, essenziale... direi inesorabile sia sotto l'aspetto contenutistico che di tecnica cinematografica.
L'impostazione è quella della transposizione del teatro sul grande schermo. Ci scorrono, a modi palcoscenico, circa 40 quadri a ripresa fissa ..che da spettatori increduli leggiamo come surreali, assurdi e financo atroci per il nostro abituale sentire umano.
Sono pezzi di vita vera che noi uomini "sociali" e" tecnologici" neanche più riconosciamo benchè vissuti e quotidianamente presenti sotto i nostri occhi. Situazioni al limite del teatro di Beckett, con 2 piazzisti di "scherzi di carnevale" nei panni di moderni Didi e Gogo di "Waiting for Godot".
Pellicola da scuola di cinema, da intendersi come strumento per formare lo spettatore alla lettura del linguaggio cinematografico, dei suoi tempi e dei suoi simboli. Ognuno sarà libero di dare, secondo sensibilità di coscienza, la propria interpretazione alle immagini di questo film, la mia è una lettura, magari parziale, ma ho visto essenzialmente rappresentare la mediocrità dell'essere umano indipendentemente dai tempi e ...dalle categorie sociali di appartenenza dei personaggi.
I 2 venditori paiono addirittura la personificazione sdoppiata del Bene e del Male, sono espressione del sentire massificato (vedi Roland Barthes) e ...vendono le povertà umane ...le tre peggiori qualità dell'uomo occidentale: denti di vampiro (aggressività), sacchetto che ride (derisione subdola), la maschera di dentone (falsità).
Il resto è squallore color "fanghetto" (sfondi, pareti, pavimenti) tutto uniformato e tenue come il mutevole comune senso popolare. La vita è immobile...quando si dà una mossa è perchè nulla cambi..come dei passi di flamenco...rapidi ..appariscenti ma fermi sul posto, la vita è sempre altrove ("sono contento di sapere che state bene") ed è sempre mediata da un telefono.
Ci fanno compagnia le canzonette (John Brown giace nella tomba là ..) quelle che ci infondo appartenenza e sicurezza, Andersson quando tocca la sfera individuale appoggia i suoi personaggi su pavimenti "indefiniti" color "cacca", quando affronta la sfera sociale i pavimenti sono a "quadri"...come scacchiere dove vigono le regole ma.... sempre abbastanza scialbi.
Forse troppo didascalici alcuni temi proposti quali la stupidità del Potere (vedi figura del Re), la voracità dell'Imperialismo (caldaia che cuoce degli schiavi di colore) e la nefasta previsione di una sorte insulsa x un neonato immaginato dentro una carrozzina...naturalmente anch'essa "Beige"...benchè al centro di un palcoscenico naturale e colorato.
Neanche l'amore di un uomo e una donna che si "toccano" su una duna sabbiosa e incolore sembra riscattare la condizione di deriva della persona e di noia sociale. L'inutilità dello scorrere del tempo è rimarcata dal dubbio di che giorno sia della settimana ...(Mercoledì...? Giovedì?..o Martedì?)....nulla cambia nella mediocrità infinita dell'uomo...è la noia ..la noia senza soluzione di continuità.
Film non per tutti e sicuramente non per il grande pubblico.....culturalmente interessante anche se ritengo sia da vedere con l'umore giusto.
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