Anime nere

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La scia di sangue delle faide che s'autoalimenta. Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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domenica 21 agosto 2016

ANIME NERE (IT, 2014) diretto da FRANCESCO MUNZI. Interpretato da MARCO LEONARDI, PEPPINO MAZZOTTA, FABRIZIO FERRACANE, BARBORA BOBULOVA, AURORA QUATTROCCHI
Storia di tre fratelli calabresi: Luigi, Rocco e Luciano. Il primo è un narcotrafficante colluso con la ‘ndrangheta; il secondo un imprenditore stabilitosi a Milano che ha costruito un piccolo impero economico piuttosto fiorente grazie ai soldi sporchi guadagnati dal fratello con la droga; il terzo, restato in Calabria ad allevare capre, è estraneo agli affari malavitosi di famiglia. Un motivo per reincontrarsi tutti e tre lo hanno quando Leo, l’instabile e rancoroso figlio di Luciano, una notte mitraglia con un’arma da fuoco la saracinesca di un bar protetto da un boss locale, nemico storico della sua famiglia. L’evento suscita un clamore piuttosto preoccupante presso le cosche autoctone, che arriva alle orecchie di Nino Barreca, capoclan che da tempo ostenta amicizia nei confronti di Luigi e Rocco, ma in realtà trama alle loro spalle per tradirli e scatenare una guerra a lungo rimasta sopita. Il pretesto per riaccenderla è l’assassinio a sangue freddo di Luigi, ordito da Barreca. Celebrati i suoi funerali, Rocco prende in mano la gestione degli affari famigliari, ma Leo, assecondando il suo temperamento iracondo, vuole uccidere personalmente Barreca, ma fallisce e muore egli stesso per mano dei suoi sicari. Travolto e accecato dal dolore per la scomparsa violenta del figlio che pure aveva avvertito, Luciano fa piazza pulita di parenti e amici con una pistola. I film italiani di tema mafioso, ormai, non si contano più, e risulta sempre più complicato raccontare storie che non scadano nella banalità, o più precisamente quella famosa banalità del male di cui per la prima volta parlò la sociologa Hannah Arendt, e che si può applicare benissimo alle trame delle pellicole di denuncia che mettono a nudo il mondo del malaffare nostrano. Anime nere, diretto da uno sceneggiatore alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, ha una marcia in più, che riesce a conseguire relativamente alla disarmante sincerità con cui lavora alla sua storia: presenta tre protagonisti completamente negativi che però non vengono giustificati, ma bensì dipinti coi colori della vendetta come sentimento nobile, dell’amore fraterno che sa sia unire che dividere, del desiderio impellente di tener separati il mestiere del malvivente dagli affetti amorosi e della necessità di non vivere nella paura, malgrado tutti gli agenti esterni concorrano per edificare un ambiente nel quale il terrore è l’unica regola vigente per sopravvivere. Infondere il terrore negli altri e manovrarlo a proprio totale piacimento, a seconda delle evenienze: un must, un monito, un credo che, da tempo immemorabile, le mafie di ogni terra ed epoca adottano per continuare a proliferare. Con una sceneggiatura destreggiata con abilità fra pathos e violenza, sarcasmo e risvolti amari, recitazione sotto le righe ed eventi tenebrosi sempre in agguato, il film di Munzi rivela la sua natura di racconto drammatico che, per quanto non appartenga alla categoria della non-fiction, utilizza la tensione a mo’ di eccezionale strumento narrativo, evitando con cura di non perdonare nessuno e di puntare il dito non contro i mascalzoni intesi come persone singole, ma contro le strutture da essi costruite che finiscono per sopraffarli e coinvolgerli in giochi estremamente più grandi di loro. Il senso del pericolo è sempre dietro l’angolo, ed è il primo motore immobile che guida lo svolgimento della trama, accompagnata da un’opportuna fotografia che privilegia nettamente i colori bigi e lugubri appunto per sottolineare l’atmosfera cupa e ombrosa che permea un piccolo capolavoro di nicchia e di genere, il quale, al Festival di Venezia 2014, ha riscosso un successo alquanto meritato. Un cast stupefacente, con attori preparatissimi che parlano in vernacolo calabrese e fanno riscoprire i fasti di una società criminalmente organizzata che ancora combatte sia contro nemici considerevoli (lo Stato soprattutto) sia fra i suoi stessi componenti, lacerando mediante faide interminabili la stabilità e il controllo che dovrebbero essere il punto intoccabile per l’ottimo funzionamento di qualunque organismo, criminale o meno. Bravissimo P. Mazzotta, il brigadiere Giuseppe Fazio del ciclo di Montalbano: l’avergli affidato un ruolo negativo disvela la sua versatilità di attore. Il suo flemmatico imprenditore è un carattere squisito e azzeccato. M. Leonardi intinge al vetriolo un trafficante di stupefacenti col sorriso sempre stampato sulla faccia e le idee ben chiare in testa su come gestire il denaro sporco e il suo riciclaggio. F. Ferracane gioca da voce della coscienza nei riguardi dei due fratelli, cercando, fin quando gli è possibile, di tenersi al di fuori dei giochi al massacro, ma entrandovi di petto quando vede minacciata la sicurezza del suo focolare. Nel sottotesto, il film disegna anche una sottile ma evidente misoginia, senza che però si sfoci nella cattiveria dichiarata: le donne, mogli, madri o sorelle dei mafiosi, assistono da testimoni involontarie, inconsapevoli e inattive ai delitti che i loro mariti, padri e figli commettono, confidando nell’oscurità della notte e nel collaborazionismo silenzioso delle forze dell’ordine e contando sulla muta complicità degli esseri umani di sesso opposto al loro. Ciò non toglie, cinematograficamente parlando, un tocco di deliziosa qualità alle interpretazioni femminili, fra cui spiccano un’inquieta Bobulova e la serena rassegnazione di A. Quattrocchi (già comparsa in Nuovomondo di E. Crialese, 2006). Da non perdere.

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