eddy xīn
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venerdì 5 settembre 2014
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africo, che racconta l'universale
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Io non sapevo come fosse Africo. Sapevo che esisteva un paese di nome Africo, sapevo che fosse in Calabria. Ma non ne conoscevo il cielo livido, le case con i mattoni a vista, le opere pubbliche fuori scale, le strade come mulattiere, non conoscevo le capre con le corna, la chiesa di cemento in mezzo al paese. Io non sapevo che dialetto si parlasse ad Africo, avrei immaginato un calabrese caricaturale con tutte le t aspirate, non ne conoscevo la parlata chiusa, tra le vocali del salentino e la sintesi espressiva del siciliano. Con Anime nere ho viaggiato in un luogo dove non avrei messo piede, e mai avrei immaginato tanto simile a luoghi ostici e ben più esotici che mi sono trovato a percorrere come certe strade del Caucaso orientale, quando da Tbilisi, Georgia guidi verso sud, passi il confine con l'Armenia e intorno a te il mondo torna improvvisamente indietro di quarant'anni, raccontandoti paesaggi semiurbani che ritrovavo nella mia memoria solo in certi remotissimi e sfumati ricordi della prima infanzia, dove ad essere nuovi sono i vestiti, la tecnologia, il taglio dei capelli delle persone, inseriti in un ambiente esterno che al contrario non ha sentito la necessità di cambiare.
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Io non sapevo come fosse Africo. Sapevo che esisteva un paese di nome Africo, sapevo che fosse in Calabria. Ma non ne conoscevo il cielo livido, le case con i mattoni a vista, le opere pubbliche fuori scale, le strade come mulattiere, non conoscevo le capre con le corna, la chiesa di cemento in mezzo al paese. Io non sapevo che dialetto si parlasse ad Africo, avrei immaginato un calabrese caricaturale con tutte le t aspirate, non ne conoscevo la parlata chiusa, tra le vocali del salentino e la sintesi espressiva del siciliano. Con Anime nere ho viaggiato in un luogo dove non avrei messo piede, e mai avrei immaginato tanto simile a luoghi ostici e ben più esotici che mi sono trovato a percorrere come certe strade del Caucaso orientale, quando da Tbilisi, Georgia guidi verso sud, passi il confine con l'Armenia e intorno a te il mondo torna improvvisamente indietro di quarant'anni, raccontandoti paesaggi semiurbani che ritrovavo nella mia memoria solo in certi remotissimi e sfumati ricordi della prima infanzia, dove ad essere nuovi sono i vestiti, la tecnologia, il taglio dei capelli delle persone, inseriti in un ambiente esterno che al contrario non ha sentito la necessità di cambiare. Anime nere mi ha portato ad Africo, mi ha fatto sentire il freddo della notte aspromontina, mi ha fatto attraversare strade che non avrei mai pensato di percorrere.
Io avevo un forte pregiudizio verso una "pellicola italiana che parla di vita criminale, lo confesso". Sono uno di quegli spettatori rassegnati, che ha già speso tanto tempo su articoli di fondo, manifestazioni d'impegno civile, pellicole e volumi di denuncia. L'età mi ha reso cinico: mi interessa il capire, l'intuire, del mafioso cattivo contro i buoni sono piene le fiction televisive e i film americani, pensavo, e se devo vedere un film, pensavo, mi rivedo The Untouchables, o Il Padrino 1 e 2, che alla fine finti come una banconota da 28 euro ma che fanno il loro porco lavoro di intrattenere. E anche qui, Munzi mi ha stupito.
Perchè Anime nere non racconta solo una tragedia familiare, ma anche un modo di pensare, un dramma generazionale tra l'equilibrio raggiunto dai padri e il nichilismo del giovane cresciuto con quel disperato bisogno di identità che finirà di compromettere ogni difficile, faticoso, labile equilibrio. Nella scelta suicida e stupida di Leo (ammesso che per stupidità si definisca un comportamento irrazionale che nuoce agli altri e a sè stessi) ho riletto non solo l'incomprensibile scelta dei giovani jihadisti britannici che vanno a uccidere e morire in Iraq, ma anche le mille violenze urbane di giovani uomini e donne che vogliono tutto, e lo vogliono subito, e non capiscono perchè altri hanno ciò a cui loro devono rinunciare, e tutto distruggono per affermare il loro solo desiderio di esistere. Munzi non dà lezioni, pare quasi che finga di sospendere il giudizio, il suo punto di vista appare neutrale e rispettoso per un mondo atavico ma non primordiale, capace di attendere, e non a caso destinato alla dannazione quando l'urgenza di velocità del moderno contamina il più giovane e il più debole della famiglia. Siamo noi spettatori a dannarci per la scelta disperata di Luciano, il più simile a noi dei tre fratelli protagonisti nel suo rifiuto della vita criminale, ma siamo gli stessi che in fondo provavano un moto di empatia per la paura e la concretezza del giovane pastore che tradisce l'amico, siamo gli stessi a cui dispiace per la fine del gradasso Luigi, che ci meravigliamo quando Rocco - che pure aveva iniziato bene, con una lavata di capo al nipote più realista del re - si fa prendere la mano e asseconda l'escalation riaprendo quella faida che covava sotto la cenere.
Lo Stato, la Chiesa, le nostre istituzioni, si muovono sulla scena di Anime nere come comprimari, statuine di presepe che ripetono meccanicamente i gesti di scena: la perquisizione, l'omelia restano sullo sfondo, routine di chi all'azione è e vuole restare estraneo, rinunciando a capire, muovendosi con fin troppa cautela all'interno di percorsi predeterminati che restano loro estranei. Le dinamiche del dramma si svolgono altrove, ed è in quell'altrove che Munzi ci trasporta. La tragedia si consuma in un mondo dove i nostri concetti moderni e hollywoodiani di buono e di cattivo non esistono più, sfumati in un dramma ancestrale, radici che ci straniano fin dall'inizio, quando Luigi e Nicola rubano due capretti in una cascina lombarda per sgozzarli e farli allo spiedo nel retrobottega di un night del milanese.
Una sorpresa, infine, gli attori, per noi abituati da troppo tempo a un cinema italiano che sconta da troppo tempo il modello di "fiction televisiva in due puntate" i protagonisti, volti più o meno noti , sono del tutto calati in una mimesi che talvolta li rende irriconoscibili. Spendiamo una parola, cercandone i nomi su google, per alcuni dei non protagonisti (particolarmente riuscite le parti di Salvatore Filocamo, l'anziano e cauto capofamiglia rivale, e dell'africense Stefano Priolo, che interpreta Nicola. braccio destro di Luigi).
L'applauso al termine della proiezione è stato inevitabile, e sarebbe continuato forse oltre i famosi 13 minuti se solo le gentili e ferme maschere del palazzo del cinema non ci avessero accompagnato verso l'uscita. Un film, poi, ho l'abitudine di giudicarlo davvero il giorno dopo, quando vai a dormire e pensi al film, quando con gli amici che erano con te parli del film. E Anime nere dura molto di più delle due ore di proiezione. Perchè di Calabria, di Aspromonte, di Africo si parla, ma le Anime nere di Francesco Munzi sono universali.
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tiepolo71
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venerdì 5 settembre 2014
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ho ancora i brividi...
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Siamo rimasti colpiti dalla bravura degli attori, sia quelli con esperienza che quelli alle prime armi in questo film. Coinvolgente, dal finale inaspettato e fuori dai canoni delle pellicole del suo genere. Il regista riesce ad esaltare il pubblico (13 min. di applausi) grazie ad una narrazione avvincente che tiene con il fiato sospeso e culmina in un finale veramente commovente! Il tutto accompagnato da una colonna sonora sempre puntuale e coinvolgente. Veramente una sorpresa...........Non vediamo l'ora di rivederlo!
Grazie Francesco Munzi !
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silvano bersani
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lunedì 22 settembre 2014
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uomini tragici
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Bisogna essere grati a Francesco Munzi per opere come questa. E' una narrazione potente, lucida e tagliente come l'acciaio. Ma soprattutto bisogna essergli grati per avere con intelligenza scansato i luoghi comuni a cui poteva prestare il fianco.
Narra di una Calabria scabra e ostile che fa da sfondo ad un dramma ancestrale. Ma lo fa con il rigore della tragedia classica, evitando l'antropologismo pittoresco in cui indulgono alcuni autori di questa generazione. Lo fa portando sullo schermo un casting magistrale (indimenticabile il dolore austero nel volto di Aurora Quattrocchi). Lo fa con il contrasto esasperato di una fotografia impietosa e cruda. Lo fa con una regia sempre molto attenta e lucida.
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Bisogna essere grati a Francesco Munzi per opere come questa. E' una narrazione potente, lucida e tagliente come l'acciaio. Ma soprattutto bisogna essergli grati per avere con intelligenza scansato i luoghi comuni a cui poteva prestare il fianco.
Narra di una Calabria scabra e ostile che fa da sfondo ad un dramma ancestrale. Ma lo fa con il rigore della tragedia classica, evitando l'antropologismo pittoresco in cui indulgono alcuni autori di questa generazione. Lo fa portando sullo schermo un casting magistrale (indimenticabile il dolore austero nel volto di Aurora Quattrocchi). Lo fa con il contrasto esasperato di una fotografia impietosa e cruda. Lo fa con una regia sempre molto attenta e lucida. Tratta una materia narrativa che si radica nella cultura di un territorio, ma che da qui sale ad indagare i temi universali che scuotono la coscienza umana: l'onore, la dignità, i legami famigliari. Ne esce il ritratto di uomini nudi di fronte alla loro tragedia amletica.
Il risultato è un'opera esemplare per la coerenza stilistica e per la profonda onestà intellettuale.
Meritava più attenzione a Venezia.
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aliosha66
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venerdì 19 settembre 2014
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un film che rimane dentro
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Ho amato moltissimo questo film: coinvolgente, diretto magistralmente e con attori bravissimi. Un crescendo di emozioni fino al finale sconvolgente, ma anche liberatorio. Un film che ti rimane dentro che raccomanderei a tutti di vedere.
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howlingfantod
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venerdì 26 settembre 2014
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la potenza pervasiva del male
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Per semplificare è la storia di tre fratelli in una famiglia della ‘ndrangheta Calabrese e delle loro diverse attitudini che portano alla tragedia shakespeariana finale, per esteso è una discesa agli inferi senza risalita che sfrutta il clichè malavitoso ma parla del male endemico a una famiglia, del suo micidiale funzionamento, il male di una società, forse all’umanità tutta. Lotte per il potere, tradimenti, cose ancestrali tramandate di generazione in generazione, inestirpabili come le erbacce maligne che crescono e ricrescono sul tessuto sano. Luigi, lo spacciatore internazionale, il vero duro, il vendicatore dei torti subìti familiari, il vero capo famiglia forse nella logica familistica non trova il consenso di Rocco, pur pronto a sfruttarne i vantaggi e a rispondere al richiamo del clan, lui che se ne sta a Milano con la sua bella moglie così lontana dalle donne dell’Aspromonte, né di Luciano il fratello maggiore che vorrebbe una vita onesta con l’allevamento delle sue capre, come se l’innocenza fosse possibile nelle terre ispide e riarse dell’ Aspromonte dove l’appartenenza mafiosa è cosa del sangue .
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Per semplificare è la storia di tre fratelli in una famiglia della ‘ndrangheta Calabrese e delle loro diverse attitudini che portano alla tragedia shakespeariana finale, per esteso è una discesa agli inferi senza risalita che sfrutta il clichè malavitoso ma parla del male endemico a una famiglia, del suo micidiale funzionamento, il male di una società, forse all’umanità tutta. Lotte per il potere, tradimenti, cose ancestrali tramandate di generazione in generazione, inestirpabili come le erbacce maligne che crescono e ricrescono sul tessuto sano. Luigi, lo spacciatore internazionale, il vero duro, il vendicatore dei torti subìti familiari, il vero capo famiglia forse nella logica familistica non trova il consenso di Rocco, pur pronto a sfruttarne i vantaggi e a rispondere al richiamo del clan, lui che se ne sta a Milano con la sua bella moglie così lontana dalle donne dell’Aspromonte, né di Luciano il fratello maggiore che vorrebbe una vita onesta con l’allevamento delle sue capre, come se l’innocenza fosse possibile nelle terre ispide e riarse dell’ Aspromonte dove l’appartenenza mafiosa è cosa del sangue . Il film mostra come la mafia sia endemica, insita alla famiglia e al crescere di tutte le ramificazioni del paese-villaggio sociale, in Calabria si immagina mostra questo nella sua quintessenza: alla mafia siciliana che avrà pure gli stessi rituali di quelli qui mostrati, nella percezione comune sovrastà la cupola che tutto contiene, il principio fondante dell’organizzazione, qui invece ci sono le ndrine, ognuno per sé, piccoli nuclei in lotta perenne l’un con l’altro, in tutto e per tutto e la futilità di un pretesto, come nel figlio di Luciano Leo che spara sulla saracinesca dei Ferraro, clan-famiglia rivale per motivi di comune sgarbo fra ragazzi scatena conseguenze inesplicabili e tragiche partendo da un semplice richiamo all’ordine da parte dei padrini del paese villaggio, come potrebbe essere la tirata di orecchi di un padre. Il male si fa sistema, il non fidarsi, il tradimento si mostra in seno alla famiglia fino alla carneficina finale solo apparentemente inaspettata e degna del teatro Elisabettiano. Nessuna speranza anche le parole del prete sono un sottofondo in dissolvenza a queste latitudini. Il male è lì a potata di mano ed è immane e intragenerazionale, nessuna via d’uscita, solo rappresentare come fa Munzi, nessun apologo morale e anche il il fratello “buono”, Luciano, non sfugge alla logica del sangue nel suo “slancio”morale finale.
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angelo umana
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lunedì 22 settembre 2014
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anime e natura sporcate
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E’ possibile per chi vive in ambienti dove il regolamento di conti è natura, tradizione, modo di affermare la propria identità desiderosa di “rispetto” e il proprio coraggio, sovvertire la regola ed esimersi dalla vendetta?
Sarebbe possibile ma è difficile, sembra dire il film di valore “Anime nere” di Francesco Munzi (dal libro di Gioacchino Criaco). Il valore consiste nel tema che – a me pare – il regista vuole porre, ma anche nell’immagine rimandataci di un certo Sud, un angolo della Calabria in questo caso, una fiction che è quasi documentario di piccola grande malavita, veritiero nelle inflessioni, nel suo dialetto (sottotitolato), tradizioni, riti, costumi e celebrazioni di funerali con comari piangenti ed oranti, con traffici di droga ed armi che fanno spesso tenere agli abitanti relazioni con l’”estero”: Milano, Marbella, Sud America, Olanda.
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E’ possibile per chi vive in ambienti dove il regolamento di conti è natura, tradizione, modo di affermare la propria identità desiderosa di “rispetto” e il proprio coraggio, sovvertire la regola ed esimersi dalla vendetta?
Sarebbe possibile ma è difficile, sembra dire il film di valore “Anime nere” di Francesco Munzi (dal libro di Gioacchino Criaco). Il valore consiste nel tema che – a me pare – il regista vuole porre, ma anche nell’immagine rimandataci di un certo Sud, un angolo della Calabria in questo caso, una fiction che è quasi documentario di piccola grande malavita, veritiero nelle inflessioni, nel suo dialetto (sottotitolato), tradizioni, riti, costumi e celebrazioni di funerali con comari piangenti ed oranti, con traffici di droga ed armi che fanno spesso tenere agli abitanti relazioni con l’”estero”: Milano, Marbella, Sud America, Olanda. Mentre Baarìa rappresentava una Bagheria in carta patinata, più favola che cronaca, il film di Munzi mostra Afrìco nella Locride così com’è, le case tirate su e i piani superiori ancora da finire (secondo il denaro disponibile), i paesi d’Aspromonte cadenti e del tutto svuotati, che servono da rifugio o da sede di piccoli “summit”, anche malavitosi.
La difficoltà di esimersi da quell’obbligo nel film è suggerita dalle parole di un anziano signorotto locale, un “verme” lo definisce Luciano parlando con sua moglie: “Siti u primu de frati e nun sapiti nenti?”. Come a dire che Luciano, primo dei fratelli Rocco e Luigi, dovrebbe agire di concerto con loro, o quelli e suo figlio di concerto con lui, essere informato degli “affari di famiglia”. In realtà lui ha preso una strada diversa, cura il suo gregge, si dedica a una personale devozione religiosa, vuole star lontano da faide e conflitti e non sa tenere a freno nemmeno l’irruente e sconsiderato figlio Leo, il quale si sente ormai uomo, libero di vivere la vita che vuole, quella per esempio dell’uomo forte e rispettato come gli appare zio Luigi. In questo ruolo non poteva esserci attore più indovinato, Marco Leonardi, che sembra incarnare perfettamente - nelle movenze, perfino nella statura, nei sorrisi alla volta enigmatici o rassicuranti - la figura di un boss locale ma con affari e residenza a Milano, dove risiede pure Rocco, sposo di Valeria (Barbora Bobulova). Altro personaggio significativo è quello della mamma dei tre, l’anziana Rosa-Aurora Quattrocchi - perfetto e ancora una volta ben interpretato il ruolo di mamma del sud - che ebbe il marito Bastiano ucciso da un clan avverso. Memorabile e tipico il suo sputo allo sbirro. Rivediamo anche Sebastiano Filocamo, autonarrante protagonista del bel film “Tutti i rumori del mare”, qui nella parte del figlio del capo di un clan rivale o amico, secondo convenienza.
Le anime, più che nere, sono come la natura che qui è sporcata dal degrado, soprattutto morale, uomini che se da un lato si sono guadagnati rispetto, timore altrui, piccoli poteri, Land Rover Audi Bmw e le appariscenti e classiche catene d’oro al collo (con esse viene in mente la scena iniziale di Gomorra), dall’altro vivono qualcosa che non è “più una vita, ma un vivere la morte”, lo dice il prete nell’unico funerale che si vede nel film. La difficoltà di Luciano – in questo ruolo un riflessivo e naturale Fabrizio Ferracane, poche parole ma una capacità espressiva fortissima - di isolarsi e non partecipare a queste guerre quasi ataviche, deriva soprattutto dalla logica familiare. Rocco, “sceso” da Milano per l’uccisione di Luigi, pronuncia l’archetipica formula meridionale, “La devono pagare, quant è vero Gesù Cristo!”: il connubio tra religione e malavita è del resto tradizione, ne hanno scritto molto, tra gli altri, Nicola Gratteri in “Acqua Santissima” e Petra Reski in “Santa Mafia”. Il vero regolamento di conti viene compiuto proprio da Luciano dunque, ma è tutto interno alla sua famiglia, parrebbe voler estinguere quella logica di guerre tra clan, quel modo di vivere e di pensare. Ha uno sguardo stralunato verso sua moglie dopo aver sparato, pare scusarsi e pare avere un’espressione di saluto negli occhi, o addio alla vita.
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catcarlo
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mercoledì 24 settembre 2014
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anime nere
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I fratelli Luigi e Rocco hanno esportato gli affari della ‘ndrina di famiglia: il primo traffica in droga su scala europea, il secondo ricicla il denaro nei cantieri milanesi. A casa ad Africo è rimasto il primogenito Luciano, uomo mite che preferisce il lavoro in campagna, ma il cui figlio Leo è una testa calda che finisce per risvegliare vecchi rancori che richiamano tutti al paese. Munzi (insieme a Maurizio Braucci e Fabrizio Ruggiriello) riadatta liberamente un romanzo di Gioacchino Criaco per raccontare una storia di ordinaria delinquenza che si svolge con il passo ineluttabile della tragedia greca spogliando i suoi criminali di qualsiasi aura anche maledetta. Si tratta di piccoli uomini perennemente vestiti di nero la cui vita ha come scopio l’arraffare denaro (o la roba, come diventare padroni di mezza montagna) e la difesa di un malinteso senso dell’onore.
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I fratelli Luigi e Rocco hanno esportato gli affari della ‘ndrina di famiglia: il primo traffica in droga su scala europea, il secondo ricicla il denaro nei cantieri milanesi. A casa ad Africo è rimasto il primogenito Luciano, uomo mite che preferisce il lavoro in campagna, ma il cui figlio Leo è una testa calda che finisce per risvegliare vecchi rancori che richiamano tutti al paese. Munzi (insieme a Maurizio Braucci e Fabrizio Ruggiriello) riadatta liberamente un romanzo di Gioacchino Criaco per raccontare una storia di ordinaria delinquenza che si svolge con il passo ineluttabile della tragedia greca spogliando i suoi criminali di qualsiasi aura anche maledetta. Si tratta di piccoli uomini perennemente vestiti di nero la cui vita ha come scopio l’arraffare denaro (o la roba, come diventare padroni di mezza montagna) e la difesa di un malinteso senso dell’onore. La miseria interiore contrasta con il lusso esteriore, tra grandi automobili – l’unica utilitaria è la Panda di Luciano – e l’attico di Luigi a Milano: soldi che però non possono liberare da una società e da un modo d’essere che non offrono vie d’uscita, ben rappresentati dalla macchina da presa che incombe sempre sui personaggi e dagli ambienti sovraccarichi, inclusa la lussuosa casa in cui Rocco vive assieme alla bella moglie del nord (Barbora Bobulova nell’unico personaggio forse non essenziale). I legami insolubili già si delineano nel furto e nella macellazione dei capretti, una scena da ‘Quei bravi ragazzi’, e dimostrano la loro forza al ritorno ad Africo, in una Calabria in cui è stridente il contrasto tra la bellezza di una natura aspra e l’orrore di ciò che hanno costruito gli uomini, con i vecchi paesi ormai spenti e diroccati mentre i nuovi centri sono fatti di case finite a metà e chiese di una bruttezza sconsolante. E’ qui che la storia avanza verso la sua conclusione con un passo lento che accentua l’oppressione complessiva, alla quale contribuiscono anche le tonalità cupre della fotografia di Vladan Radovic, mentre l’azione si sposta via via in ambienti più squallidi e degradati come una scuola abbandonata o un garage affacciato su una strada sterrata. Una stasi che viene spezzata dal lampo di violenza dell’epilogo che, malgrado sia lo sbocco della tragedia di cui sopra, con il suo tocco di melodramma risulta essere uno strappo troppo traumatico rispetto ai cento minuti che l’hanno preceduto: se da una parte la sequenza conclusiva colpisce lo spettatore con forza grazie anche alla musica che all’improvviso si fa protagonista, dall’altro introduce una nota che non si amalgama con il tono complessivo dell’opera. Si tratta però di uno dei pochi appunti, assieme alla poca cura che pare affiorare talvolta nei dialoghi, che si possono muovere a un film di grande coerenza stilistica che finisce per appassionare malgrado racconti una storia ispida popolata da personaggi che definire scorbutici è dire poco. Merito anche di un gruppo di attori che funziona come meglio non si potrebbe, lavorando spesso per sottrazione e recitando in un dialetto (sottotitolato) che contribuisce alla tetraggine dell’insieme: l’irruenza del Luigi di Marco Leonardi si contrappone alla freddezza quasi professorale di Rocco/Peppino Mazzotta ed entrambi finiscono per incrinare il vaso di coccio di Luciano impersonato da Fabrizio Ferracane. Accanto a loro, oltre al viso ormai iconico di Aurora Quattrocchi, si fanno ricordare i due esordienti calabresi Pasquale Romeo e, soprattutto, Giuseppe Fumo, il cui Leo, stolido e carico di rabbia, è motore e riassunto dell’intera vicenda.
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dromex
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venerdì 10 ottobre 2014
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da vedere assolutamente
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Ho visto questo film conoscendo la realtà della zona, essendo io originario della locride.
Va detto ancora che sulla 'Ndrangta poco o nulla era stato filmato finora; solamente articoli di cronaca o letteratura specializzata.
Voglio descrivere questo film con 3 aggettivi: realistico, amaro e profondo.
Soprattutto, e ne è la morale alla fine che conclude il film, la guerra (qui fra le famiglie locali) esiste perché nessuno si tira indietro. E questo non significa aver perso ma significa smettere di buttare benzina sul fuoco.
Da vedere per riflettere.
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kimkiduk
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domenica 5 ottobre 2014
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bravo munzi
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Quando vai a vedere un film elogiato sia dalla critica ufficiale che dal pubblico spesso ti attendi un grande film con quasi la paura della delusione. Poi l'argomento prestava ad un serie di ripetute analisi e ad una monotonia degli argomenti ormai ampiamente trattati. Per Anime Nere invece non si può che confermare quanto di buono è stato detto. Film molto ma molto bello e quasi nuovo nonostante il tema della narrazione. L'analisa dell'andrangheta è stato trattato in forma quasi privata con il dramma familiare di chi non ne vorrebbe sapere e di chi (Luciano) ne vorrebbe uscire finalmente pur facendone parte familiarmente. Splendido interno dell'animo di un figlio che ha perso il padre, di un fratello che perde il fratello e di un padre che perde il figlio.
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Quando vai a vedere un film elogiato sia dalla critica ufficiale che dal pubblico spesso ti attendi un grande film con quasi la paura della delusione. Poi l'argomento prestava ad un serie di ripetute analisi e ad una monotonia degli argomenti ormai ampiamente trattati. Per Anime Nere invece non si può che confermare quanto di buono è stato detto. Film molto ma molto bello e quasi nuovo nonostante il tema della narrazione. L'analisa dell'andrangheta è stato trattato in forma quasi privata con il dramma familiare di chi non ne vorrebbe sapere e di chi (Luciano) ne vorrebbe uscire finalmente pur facendone parte familiarmente. Splendido interno dell'animo di un figlio che ha perso il padre, di un fratello che perde il fratello e di un padre che perde il figlio. Lettura decisamente diversa di un mondo vissuto quasi dall'interno, visto con una realtà quasi disarmante anche per chi come me lo conosce solo per sentito dire o visto nei film. Accorato appello umano al disagio del voler uscire dalla povertà per comprare una collana a chi non saprebbe cosa farci o per comprare altre terre da non poter coltivare. Ne ho letto quasi un'inutile ricerca di ricchezza, una voglia di uscire da una condizione per arrivare ad un'altra del tutto inutile. Ma fino a qui si sopporta soffrendo. Quando questa ricerca del niente porta non solo ad una "guerra" di mafia ma alla perdita anche del figlio, si arriva all'estrema decisione. Finale inaspettato soprattutto penso per chi può conoscere bene la legge della vendetta vista come giustizia. Forse ricerca di una speranza non ancora comprensibile. Affresco doloroso di una persona "per bene" stonata in un ambiente di anime nere. Musica, fotografia e recitazione ai massimi livelli per un prodotto italiano molto spesso non così interessante; soprattutto se si pensa all'utilizzo di attori non di nome e con altri attori sicuramente non professionisti. Decisamente un grande film, quasi choccante nel finale e che ti fa uscire dal cinema dicendo: quello che speravo ho trovato, quello che doveva essere era. Grazie a Munzi regista nuovo, giovane alla sua terza opera lunga (da me conosciuta) e la migliore delle tre e che sarà sicuramente atteso al prossimo film, sperando magari che non continui soltanto sull'analisi di un'Italia di mafia e di immigrati.
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maramaldo
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mercoledì 8 ottobre 2014
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ma c'è speranza?
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Niente premi a Venezia. Non ne farei un dramma. Di solito i riconoscimenti lagunari non giovano al botteghino e spesso rilasciano al film una patente di fumoso e/o pretenziosetto il cui solo vantaggio è quello di farlo cadere immediatamente nel dimenticatoio.
E' novità consolante, invece, l'aver scovato in Francesco Munzi un regista di razza. Con mano sicura, direi magistrale, ha diretto un cast che , pur non venendo dall'Actor's Studio, ha dato prestazioni esemplari ed efficaci e, da parte di qualcuno (e qualcuna) interpretazioni di spessore, da ricordare.
E che dire, perfino della fotografia. Il soggetto si sarebber prestato a contrasti violenti assieme a pastelli da cartolina.
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Niente premi a Venezia. Non ne farei un dramma. Di solito i riconoscimenti lagunari non giovano al botteghino e spesso rilasciano al film una patente di fumoso e/o pretenziosetto il cui solo vantaggio è quello di farlo cadere immediatamente nel dimenticatoio.
E' novità consolante, invece, l'aver scovato in Francesco Munzi un regista di razza. Con mano sicura, direi magistrale, ha diretto un cast che , pur non venendo dall'Actor's Studio, ha dato prestazioni esemplari ed efficaci e, da parte di qualcuno (e qualcuna) interpretazioni di spessore, da ricordare.
E che dire, perfino della fotografia. Il soggetto si sarebber prestato a contrasti violenti assieme a pastelli da cartolina. Si è, invece, soffusa una luce onirica, un grigio tristemente irreale in perfetta aderenza alla dolente narrazione.
Una sorpresa. Risultati inattesi ottenuti elaborando un materiale frequentato su cui per decenni si è esercitato il migliore (e non solo) cinema italiano.
La stessa connotazione etnico-localistica, ossia in questo caso la "calabresità antropologica e geografica, - la quale di solito è folklore di contorno quando non pretesto di sociologia a buon mercato - qui è lezione di storia.
Non credo, però, che gli Autori abbiano voluto dare lezioni. La loro è solo un'amara presa di coscienza, la constazione di una condanna decisa da sempre e per sempre. Una dannazione teologica per ancora viventi che penano in un inferno da cui non si esce. E dov'è quest'inferno? Lo dice la parola: giù, al Sud.
Il richiamo metafisico mostra soltanto un pensiero straziante: non c'è speranza per questi dannati. Niente alibi o attenuanti di natura ambientale, storica, sociologica, politica e - quel che è atroce -- neppure generazionale. Neanche i giovani si salvano.
Ma davvero si deve rinunciare ad una prospettiva di cambiamento, ad una qualche redenzione, a qualche tentativo di palingenesi, ad un'evoluzione civile?
Voglimo credere di no. Almeno per chi è nato stamattina.
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