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Cupa parabola d'ineluttabilità verghiana Valutazione 3 stelle su cinque

di gianleo67


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venerdì 25 dicembre 2015

Lo sgarro fatto dal nipote ed il rancore mai sopito per un'antica faida familiare, conducono i due fratelli più giovani di una n'drina calabrese da tempo emigrati al nord, a ritornare al paese natio per ricongiungersi con il maggiore di loro e vendicare finalmente l'assassinio del padre avvenuto anni addietro. Qualcuno però ha pensato bene di anticiparli nei loro sciagurati propositi di morte.
Se il cinema migliore che l'Italia ha saputo produrre nell'ultimo decennio è da ascrivere alla forza ed all'appeal di soggetti letterari fortemente legati alla cronaca più recente di un paese ancora avvinto da mali antichi quanto inestirpabili (L'imbalsamatore  - Le conseguenze dell'amore - Gomorra - Una vita tranquilla), quello che sembra contraddistinguere l'originalità e la forza di queste produzioni è piuttosto la capacità dei suoi autori di calare queste realtà nella dimensione intimistica di una tragedia umana che assurge al carattere universale di antichi miti di violenza e cupidigia, una originalità di temi e di stili cioè in grado di elevare il dramma di fatti ordinari al rango di ineluttabili tragedie della classicità. 
Questa tendenza del cinema d'autore più recente quindi sembra attagliarsi perfettamente anche al dramma naturalista di Francesco Munzi che, rifacendosi liberamente al libro di Gioacchino Criaco, imbastisce la cupa parabola di un'ineluttabilità verghiana dove il richiamo di radici e tradizioni ancestrali (il fratello mezzano) è più forte di qualunque spinta progressita (il fratello più giovane) come di una naturale remissività del carattere personale (il fratello maggiore), spostando inesorabilmente l'equilibrio drammaturgico verso le naturali conseguenze di un destino infausto.
Forte della riconoscibilità dello spaccato sociale e del rigore di un linguaggio parlato che ricalca una identità culturale che condiziona pensiero e azioni, il film di Munzi rivela tuttavia qualche ingenuità nelle situazioni romanzesche, muovendosi nei territori di un possibile reale che rimanda ai meccanismi preordinati del dramma, puntando ad una esemplarità degli eventi e ad una spigolosità dei caratteri che preludono all'inevitabilità della tragedia finale, laddove le molteplici possibilità della storia sembrano sacrificati sull'altare di un'oscura volontà di morte che comprime lo sviluppo e precipita i personaggi lungo la discesa agli inferi di un prevedibile itinerario geografico. Messi in secondo piano quindi gli orizzonti di un'espansione economica che si sposta dai rituali arcaici di un borgo rurale alla modernità di un contesto urbano di traffici illeciti e riclicaggio immobiliare, come pure della interessante analisi di una segmentazione sociale che conduce dalle radici contadine di chi lavora ancora con la terra e con le capre alle soglie di un trasformismo borghese che abita nell'ovattata comodidità di un perbenismo di facciata, il film di Munzi ci riprecipita nel medioevo risorgimentale di feudi che si inerpicano per gli scoscesi pendii dell'Aspromonte con i suoi taciti rituali sociali fatti di una tregua che vorrebbe mescolare il sangue col sangue, del parossismo di una pizzica che ricorda il banjo di un Boorman d'annata, di uno Stabat Mater dolorosa di tristi gramaglie imploranti e soprattutto dell'annientamento di una generazione senza futuro cui rispondere con l'inesorabile nemesi di una ferocia fratricida. Fotografia ed effetti sonori di notevole impatto espressivo per un film che punta soprattutto sulla qualità dei tre interpreti principali e su di una messa in scena che ci faccia finalmente (ri)credere nella profonda ed inesauribile vocazione cinematografica della nostra terra.
Incetta di David e Nastri d'Argento nell'edizione 2015 e giusti riconoscimenti di critica alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2014.

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