Anime nere |
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Un film di Francesco Munzi.
Con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova.
continua»
Drammatico,
durata 103 min.
- Italia, Francia 2014.
- Good Films
uscita giovedì 18 settembre 2014.
MYMONETRO
Anime nere
valutazione media:
3,51
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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mercoledì 24 settembre 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
I fratelli Luigi e Rocco hanno esportato gli affari della ‘ndrina di famiglia: il primo traffica in droga su scala europea, il secondo ricicla il denaro nei cantieri milanesi. A casa ad Africo è rimasto il primogenito Luciano, uomo mite che preferisce il lavoro in campagna, ma il cui figlio Leo è una testa calda che finisce per risvegliare vecchi rancori che richiamano tutti al paese. Munzi (insieme a Maurizio Braucci e Fabrizio Ruggiriello) riadatta liberamente un romanzo di Gioacchino Criaco per raccontare una storia di ordinaria delinquenza che si svolge con il passo ineluttabile della tragedia greca spogliando i suoi criminali di qualsiasi aura anche maledetta. Si tratta di piccoli uomini perennemente vestiti di nero la cui vita ha come scopio l’arraffare denaro (o la roba, come diventare padroni di mezza montagna) e la difesa di un malinteso senso dell’onore. La miseria interiore contrasta con il lusso esteriore, tra grandi automobili – l’unica utilitaria è la Panda di Luciano – e l’attico di Luigi a Milano: soldi che però non possono liberare da una società e da un modo d’essere che non offrono vie d’uscita, ben rappresentati dalla macchina da presa che incombe sempre sui personaggi e dagli ambienti sovraccarichi, inclusa la lussuosa casa in cui Rocco vive assieme alla bella moglie del nord (Barbora Bobulova nell’unico personaggio forse non essenziale). I legami insolubili già si delineano nel furto e nella macellazione dei capretti, una scena da ‘Quei bravi ragazzi’, e dimostrano la loro forza al ritorno ad Africo, in una Calabria in cui è stridente il contrasto tra la bellezza di una natura aspra e l’orrore di ciò che hanno costruito gli uomini, con i vecchi paesi ormai spenti e diroccati mentre i nuovi centri sono fatti di case finite a metà e chiese di una bruttezza sconsolante. E’ qui che la storia avanza verso la sua conclusione con un passo lento che accentua l’oppressione complessiva, alla quale contribuiscono anche le tonalità cupre della fotografia di Vladan Radovic, mentre l’azione si sposta via via in ambienti più squallidi e degradati come una scuola abbandonata o un garage affacciato su una strada sterrata. Una stasi che viene spezzata dal lampo di violenza dell’epilogo che, malgrado sia lo sbocco della tragedia di cui sopra, con il suo tocco di melodramma risulta essere uno strappo troppo traumatico rispetto ai cento minuti che l’hanno preceduto: se da una parte la sequenza conclusiva colpisce lo spettatore con forza grazie anche alla musica che all’improvviso si fa protagonista, dall’altro introduce una nota che non si amalgama con il tono complessivo dell’opera. Si tratta però di uno dei pochi appunti, assieme alla poca cura che pare affiorare talvolta nei dialoghi, che si possono muovere a un film di grande coerenza stilistica che finisce per appassionare malgrado racconti una storia ispida popolata da personaggi che definire scorbutici è dire poco. Merito anche di un gruppo di attori che funziona come meglio non si potrebbe, lavorando spesso per sottrazione e recitando in un dialetto (sottotitolato) che contribuisce alla tetraggine dell’insieme: l’irruenza del Luigi di Marco Leonardi si contrappone alla freddezza quasi professorale di Rocco/Peppino Mazzotta ed entrambi finiscono per incrinare il vaso di coccio di Luciano impersonato da Fabrizio Ferracane. Accanto a loro, oltre al viso ormai iconico di Aurora Quattrocchi, si fanno ricordare i due esordienti calabresi Pasquale Romeo e, soprattutto, Giuseppe Fumo, il cui Leo, stolido e carico di rabbia, è motore e riassunto dell’intera vicenda.
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