olgadik
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martedì 15 maggio 2012
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un film così non si vedeva da tempo
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Si tratta di un film classico, con rare sbavature, con una raffinata regia e contenuti che ribadiscono la capacità già sperimentata di Amelio nell’indagare l’anima e i comportamenti tra infanzia e adolescenza. Ad essa si aggiunge una particolare sapienza nel fornire contesti storici limpidamente suggeriti come sfondo. La retorica, pur in agguato quando l’autobiografia è dichiarata e “doppia”, come in questo caso, non abita qui. Lo stile, pur ricorrendo a modalità quasi antiche (camera su carrello con binari), costumi ispirati a ricordi personali, atmosfere legate al sud da cui si ha origine, è pieno di talento.
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Si tratta di un film classico, con rare sbavature, con una raffinata regia e contenuti che ribadiscono la capacità già sperimentata di Amelio nell’indagare l’anima e i comportamenti tra infanzia e adolescenza. Ad essa si aggiunge una particolare sapienza nel fornire contesti storici limpidamente suggeriti come sfondo. La retorica, pur in agguato quando l’autobiografia è dichiarata e “doppia”, come in questo caso, non abita qui. Lo stile, pur ricorrendo a modalità quasi antiche (camera su carrello con binari), costumi ispirati a ricordi personali, atmosfere legate al sud da cui si ha origine, è pieno di talento. Con particolare scorrevolezza nel collegare lo ieri e l’oggi dei personaggi principali, Amelio, ispirandosi all’ultima opera postuma di Camus, ricrea insieme la sua infanzia e quella dello scrittore di origine algerina. L’Algeri degli anni ’50, a parte i singoli fatti della grande Storia, è simile alla Calabria dell’autore, intrisa di luce e di mare, nonché alle ristrettezze e alla durezza che non mancarono neppure nella storia di Amelio. La partecipazione con cui egli rievoca è densa e sentita quindi, per niente accademica, con una vivezza espressiva che a volte fa pensare a Au revoir les enfants di Malle. Più spesso si pensa agli altri suoi lavori (Ladro di bambini, Le chiavi di casa, il lontano Piccolo Archimede), in cui il regista dispiega tutta la propria vena umanistica e poetica percorrendo il doppio binario della Storia e delle storie quotidiane di cui tutti noi facciamo parte. Mai però era riuscito a unire con tanta abilità, mischiando e separando,la dimensione privata nella luce malinconica del ricordo-sogno e quella politico-etica indagata e restituita con gli occhi della mente. Nel 1957 arriva in Algeria Camus-Cormery, uno scrittore che ritorna nel paese d’origine al centro di sussulti terroristici e di disordini tipici di una terra che vuole liberarsi dal giogo coloniale. Lo scrittore, pur avendo una sua idea personale di quanto gli si sta muovendo intorno,el paese, insegue nell’oggi soprattutto la memoria di un padre perso prestissimo e vuole rivedere la madre, lo zio, il maestro, tutti quei personaggi su cui il piccolo Jacques ha costruito se stesso come uomo. E in ognuno ritrova qualcosa di sé, come capiamo dal dialogo col vecchio pedagogo che ha creduto in lui, convincendo la terribile nonna a fargli proseguire gli studi. Sembrerebbe un banale amarcord questa opera dell’autore calabrese e invece, pur nella sua misura fuori dal tempo, è un film che non sa di già visto. Sentimenti, parole, silenzi si snodano come se lo stesso regista temesse di incrinare con un errore l’armonia perfetta di alcune sequenze. Ciò non vuol dire che tutto sia allo stesso livello; come in ogni opera, capolavori a parte, si registrano momenti di stanca o cadute di tensione ma, se paragonato al livello ordinario della produzione odierna, penso si possa parlare di un ottimo risultato. Attori ed attrici (Maya Sansa e Catherine Sola), ambientazioni, contenuti morali, luce e particolari narrativi (le scarpe), primi piani di sguardi senza parole (quello della madre anziana su cui il racconto si chiude) danno vita a un film da gustare come non si vedeva da qualche tempo.
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salvatore marfella
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martedì 15 maggio 2012
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una sola parola: bellissimo
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Film bellissimo, concilia sapientemente la dimensione privata (il protagonista alla ricerca delle proprie origini e in cerca di conciliazione) con quella politica (una impossibile conciliazione e coesistenza, a quei tempi ma forse non solo, tra colonialisti e colonizzati, tra arabi ed europei). La macchina da presa scivola sui corpi e sui volti con sensibilità e pudore regalando molti momenti memorabili aiutata dalla bellissima, "mediterranea", fotografia. E' un film dai molti temi: un film sul rapporto tra padri e figli, tra quelli che non hanno fatto in tempo a conoscersi, quelli che hanno operato scelte diverse, quelli divisi da diaframmi veri (le sbarre della bellissima scena tra i due algerini) e interiori; un film sulla necessità di prendere posizione di fronte ai drammi della Storia (Camus fu infatti accusato di "immobilismo politico" dai colleghi Sartre e Jeanson e il film rende benissimo il suo senso di straniamento e di perplessità); un film sulla povertà e la ricchezza e la possibilità, da parte del singolo, di farcela, contro ogni possibilità; un film sulla importanza di scegliere, di progredire ma anche sulla necessità di ricordare; infine un film sull'importanza dell'Arte di sublimare il dolore o di superarlo attraverso la creazione.
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Film bellissimo, concilia sapientemente la dimensione privata (il protagonista alla ricerca delle proprie origini e in cerca di conciliazione) con quella politica (una impossibile conciliazione e coesistenza, a quei tempi ma forse non solo, tra colonialisti e colonizzati, tra arabi ed europei). La macchina da presa scivola sui corpi e sui volti con sensibilità e pudore regalando molti momenti memorabili aiutata dalla bellissima, "mediterranea", fotografia. E' un film dai molti temi: un film sul rapporto tra padri e figli, tra quelli che non hanno fatto in tempo a conoscersi, quelli che hanno operato scelte diverse, quelli divisi da diaframmi veri (le sbarre della bellissima scena tra i due algerini) e interiori; un film sulla necessità di prendere posizione di fronte ai drammi della Storia (Camus fu infatti accusato di "immobilismo politico" dai colleghi Sartre e Jeanson e il film rende benissimo il suo senso di straniamento e di perplessità); un film sulla povertà e la ricchezza e la possibilità, da parte del singolo, di farcela, contro ogni possibilità; un film sulla importanza di scegliere, di progredire ma anche sulla necessità di ricordare; infine un film sull'importanza dell'Arte di sublimare il dolore o di superarlo attraverso la creazione. Non è un film agevole, richiede concentrazione e pazienza, capacità di tirar fuori dal "poco" che viene mostrato il "molto" che vi è racchiuso. DA VEDERE.
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eugenio
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venerdì 21 dicembre 2012
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dramma e rievocazione nell’algeria degli anni ’50
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Basta poco per rendere interessante un film: inquadratura decisa, attori ben convincenti, caratterizzazione riuscita, struttura solida dalle fondamenta robuste sviluppate attorno a un soggetto e una sceneggiatura precisa e fedele al contesto storico.
“Il primo uomo” è tutto questo: un film audace,forse un po’ lento dallo stile desueto,ma che avvinghia lo spettatore in un viaggio, interiore, alla ricerca dell’ identità perduta del protagonista,uno scrittore francese di origini algerine, Jean Cormery.
Gianni Amelio non è nuovo alla trattazione di problematiche che riguardano la generazione più debole, indifesa, ma non per questo insensibile e determinata: i bambini, portatori di una verità ancora incontaminata e lontana dai mali della consapevolezza del mondo adulto anche se per poco,per breve termine.
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Basta poco per rendere interessante un film: inquadratura decisa, attori ben convincenti, caratterizzazione riuscita, struttura solida dalle fondamenta robuste sviluppate attorno a un soggetto e una sceneggiatura precisa e fedele al contesto storico.
“Il primo uomo” è tutto questo: un film audace,forse un po’ lento dallo stile desueto,ma che avvinghia lo spettatore in un viaggio, interiore, alla ricerca dell’ identità perduta del protagonista,uno scrittore francese di origini algerine, Jean Cormery.
Gianni Amelio non è nuovo alla trattazione di problematiche che riguardano la generazione più debole, indifesa, ma non per questo insensibile e determinata: i bambini, portatori di una verità ancora incontaminata e lontana dai mali della consapevolezza del mondo adulto anche se per poco,per breve termine. “Un bambino è il germoglio dell’uomo che diventerà” dice il professore di Jean, Bernard, durante il ritorno di questi alla patria d’origine, un viaggio proustiano nel quale la rievocazione degli avvenimenti d’infanzia, è utilizzato come “cassa risonante” di un vuoto di vivere e di un presente inquieto dove ogni certezza è illusoria e dolorosa. I tentativi di convincere un paese in cui musulmani e francesi possano vivere in pace e armonia (il film è ambientato nel “presente storico” del 1957 alla vigilia della guerra di liberazione algerina), diviene istanza di riflessione sul significato e sul ruolo dell’intellettuale moderno inteso come portatore dell’unità tra popoli attraverso il potente mezzo della cultura.
Insieme al protagonista, lo spettatore rievoca, in un viaggio che è poi la vita stessa, il cammino di formazione di Jean: l’infanzia, priva di un riferimento paterno morto per la patria francese nella grande guerra, accompagnata dall’arcigna ruvidezza della nonna dalle solide e inflessibili leggi morali (si dovrebbe fare vedere più volte la scena del macellaio ai giovani viziati di oggi) e la bonaria e silente passività della madre all’interno di un contesto povero ma dignitoso: l’Algeria degli anni ’50.
Il contesto algerino che ha tra i suoi illustri rappresentanti Albert Camus, riferimento letterario (incompiuto) del film (suo è il Premier Homme che dà il titolo alla pellicola) di cui Jean è alter ego, è funzionale allo sviluppo della pellicola. Muovendosi in una terra arcaica e pronta a esplodere che Amelio ben descrive, Jean ritrova la sua vecchia madre, il suo compagno di classe disperato per la morte del figlio,alcuni dei suoi amici d’infanzia, tutti vittime del dramma algerino del terrorismo. Tale tematica che permea tutta la pellicola, rimane tuttavia sullo sfondo, abbozzata ma mai pienamente sviluppata: scopo del regista è la rappresentazione di diversi piani interiori entro cui il protagonista cerca di districarsi col pudore del fanciullo che era e che ora tenta vanamente di recuperare attraverso un viaggio che ha come meta finale la convivenza e la riappacificazione.
Non ci sono formalismi inutili così come facili sentimentalismi cui la pellicola sarebbe potuta cadere se affidata alle mani di un regista meno esperto: i frequenti primi piani, i dolorosi volti scavati dalla fatica, sono il mezzo preferito dal regista per descrivere un dramma muto, una rivolta ma anche una triste accettazione che nasce dagli occhi dei protagonisti ripresi.
Un cinema di sguardi e di immagini,finalmente.
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rescart
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martedì 25 dicembre 2012
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il testamento spiritule di camus
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I fatti storici del ‘62 ci dimostrano che, per quanto Camus fosse un grande scrittore, un artista e forse anche un filosofo, di certo non fu uno spirito profetico né tanto meno un uomo politico. Per sua fortuna, come afferma anche Massimo Fini, nel ’62 Camus era già morto e non assistette al penoso esodo dei “pieds-noir” (gli algerini europei, francesi o ebrei) che dovettero abbandonare le loro dimore africane per cercare una nuova dimora in Francia, ma non solo. Se fosse stato ancora vivo probabilmente Camus sarebbe stato uno dei pochi intellettuali francesi a difendere questo milione di persone di basso livello culturale ma di grandi capacità umane e lavorative.
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I fatti storici del ‘62 ci dimostrano che, per quanto Camus fosse un grande scrittore, un artista e forse anche un filosofo, di certo non fu uno spirito profetico né tanto meno un uomo politico. Per sua fortuna, come afferma anche Massimo Fini, nel ’62 Camus era già morto e non assistette al penoso esodo dei “pieds-noir” (gli algerini europei, francesi o ebrei) che dovettero abbandonare le loro dimore africane per cercare una nuova dimora in Francia, ma non solo. Se fosse stato ancora vivo probabilmente Camus sarebbe stato uno dei pochi intellettuali francesi a difendere questo milione di persone di basso livello culturale ma di grandi capacità umane e lavorative. Ma soprattutto di spirito di adattamento. Ben pochi saranno i coloni francesi che potranno avere il privilegio di morire sul suolo algerino, se si escludono i militari morti nei vari attentati indipendentisti degli anni precedenti la fine del colonialismo francese in Algeria, decretata da quel De Gaulle che quegli stessi coloni avevano ingenuamente appoggiato. Camus probabilmente è convinto che gli arabi non avrebbe mai torto un capello a sua madre, rimasta vedova poco dopo la sua nascita. Ma non per questo rinunciava a metterli in guardia dal farlo, dicendosi pronto in caso contrario a diventare loro nemico con la stessa convinzione con cui era disposto a schierarsi al loro fianco, riconoscendone una innata rettitudine morale e un condivisibile senso di giustizia. Ma Camus non aveva il polso della situazione in patria, perché forse era più allarmato dai bollenti spiriti neo-colonialisti che vedeva fra i suoi concittadini che da una sinistra anti-colonialista che ormai, passati i tempi della “peste” post-bellica, aveva deciso, esistenzialmente, di ignorare. Oggi col senno di poi possiamo affermare che l’idea del colono francese di morire in terra algerina era solo una pia illusione, come d’altronde anche quella della madre del protagonista autobiografico di questo libro incompiuto, divenuto film, di non voler ritornare più in patria (perché “la Francia è bella, ma non ci sono gli Arabi”). Ma quali colpe possiamo dare a Camus? Egli, che ha subito la persecuzione per avere troppo avvicinato l’arte, la letteratura e il giornalismo alle problematiche politiche (come quando fu licenziato dal suo giornale e gli fu impedito di trovare lavoro in qualunque altro giornale francese in Algeria) sa bene che l’influenza dell’intellettuale controcorrente è pressoché inesistente. E per questo si sente dare del bugiardo dall’ex compagno di scuola algerino che gli chiede di fare valere la sua presunta influenza su Mitterand per salvare dalla pena capitale il figlio imprigionato per avere collaborato in un attentato degli indipendentisti algerini. Ed in affetti non avrà alcuna influenza, anche perché il figlio dell’amico algerino sceglierà di rimanere, costi quel che costi, fedele agli insegnamenti paterni. Fino alla ghigliottina. D’altronde tutto era iniziato da lì, dalla “santa ghigliottina” con la politica francese che era seguita, nel 1830 alla rivoluzione del 1789. E tutto lì finirà. Per Camus la rivoluzione non è la via giusta né mai lo sarà. Quindi anche un’indipendenza come conseguenza di una rivoluzione non poteva essere una cosa buona, certo non buona come vedere la madre morire di morte naturale in una terra algerina non decolonizzata da un De Gaulle, che, per quanto di destra non avrebbe mai potuto pensarla come Camus in merito all’importanza della rivoluzione.
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pensierocivile
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domenica 3 marzo 2013
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rughe e sangue
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Si respira e fa respirare grande cinema IL PRIMO UOMO; una messa in scena di rispettosa compostezza, un ritmo calibrato alla perfezione nonostante i silenzi dolorosi e le indagini interiori, più necessarie rispetto alla ricerca di "vita" del protagonista. Amelio accompagna lo spettatore in un viaggio profondo, una andata e ritorno continua tra passato e presente per riflettere su cosa non è andato nel verso giusto, cosa non ha permesso al sogno del domani di divenire realtà. Così, all'impresa più difficile, quella dello studio non corrisponde la pacificazione fra i popoli, e il sangue che lega alla terra è il sangue di vittime che continuano a morire per un odio senza senso, perché fratello non sarà mai fratello se di altra razza.
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Si respira e fa respirare grande cinema IL PRIMO UOMO; una messa in scena di rispettosa compostezza, un ritmo calibrato alla perfezione nonostante i silenzi dolorosi e le indagini interiori, più necessarie rispetto alla ricerca di "vita" del protagonista. Amelio accompagna lo spettatore in un viaggio profondo, una andata e ritorno continua tra passato e presente per riflettere su cosa non è andato nel verso giusto, cosa non ha permesso al sogno del domani di divenire realtà. Così, all'impresa più difficile, quella dello studio non corrisponde la pacificazione fra i popoli, e il sangue che lega alla terra è il sangue di vittime che continuano a morire per un odio senza senso, perché fratello non sarà mai fratello se di altra razza. Amelio scava a fondo nel suo protagonista, nei suoi rapporti con l' Algeria, col popolo algerino, con sua madre, figura tracciata in modo esemplare. Catherine Sola è una donna sul cui volto è passato di tutto: la perdita di un marito, la povertà, la durezza di una madre ed oggi il rischio di morire da un momento all'altro come vittima innocente di un attentato. Muta, continua nei suoi lavori di casa, col figlio che affascinato da tanta forza non può che osservarla e dichiarare tutta la sua umanità sostenendo le rivendicazioni dei ribelli, ma ammonendo chiunque possa attentare alla vita della madre. Cinema da ammirare, applaudire e sostenere senza remore.
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rampante
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martedì 5 marzo 2013
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camus
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All'inizio dell'estate, Jacques Cormery, famoso scrittore e studioso, ritorna in Algeria, il paese dove è nato in una famiglia di coloni francesi.
Torna in Algeria nel pieno della guerra d'indipendenza chiamato dai circoli studenteschi e trova un paese devastato dal terrorismo. Dopo una movimentata conferenza all'università, dove gli studenti gli chiedono di prendere posizione, Jacques torna a casa dove ritrova l'anziana madre.
Siamo nel 1957 in un'Algeria devastata dall'odio e dal terrorismo in una realtà algerina in pieno fermento e dove ormai infuria la guerra, Jaques è distante dalla violenza politica, è un convinto sostenitore dell'indipendenza algerina e vuole diffondere l'idea di convivenza tra francesi e musulmani.
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All'inizio dell'estate, Jacques Cormery, famoso scrittore e studioso, ritorna in Algeria, il paese dove è nato in una famiglia di coloni francesi.
Torna in Algeria nel pieno della guerra d'indipendenza chiamato dai circoli studenteschi e trova un paese devastato dal terrorismo. Dopo una movimentata conferenza all'università, dove gli studenti gli chiedono di prendere posizione, Jacques torna a casa dove ritrova l'anziana madre.
Siamo nel 1957 in un'Algeria devastata dall'odio e dal terrorismo in una realtà algerina in pieno fermento e dove ormai infuria la guerra, Jaques è distante dalla violenza politica, è un convinto sostenitore dell'indipendenza algerina e vuole diffondere l'idea di convivenza tra francesi e musulmani.
A ritroso ripercorre la sua vita, va alla ricerca della tomba del padre morto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, quando lui aveva solo pochi mesi, cerca di rimettere insieme i frammenti della sua infanzia, dei suoi ricordi, ritrova lo zio Etienne, il suo maestro Bernard, il suo mondo finisce per intrecciarsi con quello della realtà algerina in pieno fermento e la sua storia privata si sovrappone alla Storia pubblica.
Jacques ritrova in quei luoghi le tracce più profonde di sé bambino e nell'alternanza dei ricordi molte certezze si sbricciolano e resta ferma un'unica verità: la centralità dell'uomo a prescindere da cultura, lingua e religione.
Il regista Amelio compone un quadro incisivo ed efficace, forte di una introspezione asciutta, risultato di uno sguardo affettuoso, dolce.
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stefano capasso
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lunedì 23 febbraio 2015
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sula memoria e sull'identità
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Jean Cornery è nato in Algeria da famiglia di origine francese. Sebbene di origini umili, riesce a studiare e a trovare il successo come scrittore. Vive in Francia e nel 1957 e tona nella sua terra d’origine a perorare la causa della convivenza pacifica tra francesi ed algerini, in un paese nel pieno del conflitto per l’indipendenza. Trova anche la madre che non ha mai voluto lasciare il paese, e insieme a lei il vecchio maestro e un suo compagno di scuola.
Gianni Amelio adatta il romanzo di Albert Camus per un bella storia intima, sulla memoria e sulla costruzione dell’identità. L’incontro con la madre e gli altri personaggi che hanno caratterizzato l’infanzia, diventa, per il protagonista, l’occasione per ricostruire la sua storia che va in parallelo con quella dell’Algeria che cerca di definirsi come nazione con la sua autonomia.
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Jean Cornery è nato in Algeria da famiglia di origine francese. Sebbene di origini umili, riesce a studiare e a trovare il successo come scrittore. Vive in Francia e nel 1957 e tona nella sua terra d’origine a perorare la causa della convivenza pacifica tra francesi ed algerini, in un paese nel pieno del conflitto per l’indipendenza. Trova anche la madre che non ha mai voluto lasciare il paese, e insieme a lei il vecchio maestro e un suo compagno di scuola.
Gianni Amelio adatta il romanzo di Albert Camus per un bella storia intima, sulla memoria e sulla costruzione dell’identità. L’incontro con la madre e gli altri personaggi che hanno caratterizzato l’infanzia, diventa, per il protagonista, l’occasione per ricostruire la sua storia che va in parallelo con quella dell’Algeria che cerca di definirsi come nazione con la sua autonomia. Un film delicato sui sentimenti e i propositi che l’uomo coltiva sin da bambino e che diverranno poi la struttura della sua vita adulta. Lo stile narrativo è sobrio, e si alterna su diversi piano temporali che si inseguono, con un fotografia di colori e sfumature che restituisce bene l’idea della memoria nel contesto del paese nordafricano.
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venerdì 5 novembre 2021
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un film poetico che con la sua semplicità descrittiva, induce a una riflessione sul senso storico degli eventi e sul valore dei rapporti umani
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Jacques Cormery (nato ad Algeri e migrato in Francia, dove è divenuto uno scrittore di fama internazionale) torna nella propria città natale nell’estate del 1957, durante il conflitto algerino, per tenere un discorso all’Università di Algeri. Jeacques durante tale discorso spiega che il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia bensì aiutare coloro che subiscono la storia e proprio pensando a coloro che, come l’anziana madre, subiscono inermi il corso degli eventi, si fa latore di un messaggio di pace e proclama una possibile pacifica coesistenza tra arabi e francesi, sollevando accese contestazioni tra la platea già infiammata dal conflitto.
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Jacques Cormery (nato ad Algeri e migrato in Francia, dove è divenuto uno scrittore di fama internazionale) torna nella propria città natale nell’estate del 1957, durante il conflitto algerino, per tenere un discorso all’Università di Algeri. Jeacques durante tale discorso spiega che il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia bensì aiutare coloro che subiscono la storia e proprio pensando a coloro che, come l’anziana madre, subiscono inermi il corso degli eventi, si fa latore di un messaggio di pace e proclama una possibile pacifica coesistenza tra arabi e francesi, sollevando accese contestazioni tra la platea già infiammata dal conflitto. Il viaggio di Jeacques non è solo un viaggio in un’Algeri divisa e in tumulto, è anche un viaggio nel passato, un ritorno alle proprie radici. L’incontro con l’amata e anziana madre, alla quale Jeacques sente di dovere molto, perché certa del suo talento lo ha spinto a lasciare l’Algeria e a cercare fortuna altrove, apre una porta sui ricordi e sull’infanzia del protagonista. Ed è così che si viene trasportati in un’Algeri degli anni venti esotica e polverosa. Un viaggio nel tempo attraverso il quale con delicatezza e essenzialità e attraverso l’infanzia del protagonista, il regista ci mostra la bellezza della povertà accompagnata dalla dignità, una povertà resa dolce dall’amata madre, dallo zio dal cuore buono e eterno bambino e solo a tratti turbata dalla burbera e severissima nonna. Ci mostra come la fatalità di certi incontri possa indirizzare la vita di un uomo e aiutare il germoglio custodito in ogni bambino a sbocciare. Apre una finestra sulla coesistenza tra due popoli destinata a sfociare nel conflitto. Con sensibilità le immagini rendono allo spettatore un’Algeri persa nel passato e poetica, fatta di case bianche inondate dal sole e di strade polverose a cui fa da sfondo il mare e poi lo riportano nel 1957 nell’Algeri del conflitto, con la cittadella, roccaforte del fronte indipendentista, delimitata dal filo spinato e sorvegliata dalla polizia, come attraverso un doppio binario del tempo. Encomiabili gli attori che riescono a interpretare i propri ruoli con grande delicatezza e comunicano oltre che con le parole con sguardi carichi di significato. Molto appropriata la scelta di Jacques Gamblin, che porta in sé una dolce malinconia, nel ruolo del protagonista. Un film che con semplicità descrittiva, essenziale nei dialoghi e nelle immagini mostrate allo spettatore, fatto di silenzi colmi di significato, riesce a far vibrare le corde interiori e a indurre una riflessione sul senso storico degli eventi e sul valore dei rapporti umani.
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[+] il primo uomo
(di fabcinema)
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venerdì 5 novembre 2021
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un film poetico che con la sua semplicità descrittiva, induce a una riflessione sul senso storico degli eventi e sul valore dei rapporti umani
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Jacques Cormery (nato ad Algeri e migrato in Francia, dove è divenuto uno scrittore di fama internazionale) torna nella propria città natale nell’estate del 1957, durante il conflitto algerino, per tenere un discorso all’Università di Algeri. Jeacques durante tale discorso spiega che il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia bensì aiutare coloro che subiscono la storia e proprio pensando a coloro che, come l’anziana madre, subiscono inermi il corso degli eventi, si fa latore di un messaggio di pace e proclama una possibile pacifica coesistenza tra arabi e francesi, sollevando accese contestazioni tra la platea già infiammata dal conflitto.
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Jacques Cormery (nato ad Algeri e migrato in Francia, dove è divenuto uno scrittore di fama internazionale) torna nella propria città natale nell’estate del 1957, durante il conflitto algerino, per tenere un discorso all’Università di Algeri. Jeacques durante tale discorso spiega che il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia bensì aiutare coloro che subiscono la storia e proprio pensando a coloro che, come l’anziana madre, subiscono inermi il corso degli eventi, si fa latore di un messaggio di pace e proclama una possibile pacifica coesistenza tra arabi e francesi, sollevando accese contestazioni tra la platea già infiammata dal conflitto. Il viaggio di Jeacques non è solo un viaggio in un’Algeri divisa e in tumulto, è anche un viaggio nel passato, un ritorno alle proprie radici. L’incontro con l’amata e anziana madre, alla quale Jeacques sente di dovere molto, perché certa del suo talento lo ha spinto a lasciare l’Algeria e a cercare fortuna altrove, apre una porta sui ricordi e sull’infanzia del protagonista. Ed è così che si viene trasportati in un’Algeri degli anni venti esotica e polverosa. Un viaggio nel tempo attraverso il quale con delicatezza e essenzialità e attraverso l’infanzia del protagonista, il regista ci mostra la bellezza della povertà accompagnata dalla dignità, una povertà resa dolce dall’amata madre, dallo zio dal cuore buono e eterno bambino e solo a tratti turbata dalla burbera e severissima nonna. Ci mostra come la fatalità di certi incontri possa indirizzare la vita di un uomo e aiutare il germoglio custodito in ogni bambino a sbocciare. Apre una finestra sulla coesistenza tra due popoli destinata a sfociare nel conflitto. Con sensibilità le immagini rendono allo spettatore un’Algeri persa nel passato e poetica, fatta di case bianche inondate dal sole e di strade polverose a cui fa da sfondo il mare e poi lo riportano nel 1957 nell’Algeri del conflitto, con la cittadella, roccaforte del fronte indipendentista, delimitata dal filo spinato e sorvegliata dalla polizia, come attraverso un doppio binario del tempo. Encomiabili gli attori che riescono a interpretare i propri ruoli con grande delicatezza e comunicano oltre che con le parole con sguardi carichi di significato. Molto appropriata la scelta di Jacques Gamblin, che porta in sé una dolce malinconia, nel ruolo del protagonista. Un film che con semplicità descrittiva, essenziale nei dialoghi e nelle immagini mostrate allo spettatore, fatto di silenzi colmi di significato, riesce a far vibrare le corde interiori e a indurre una riflessione sul senso storico degli eventi e sul valore dei rapporti umani.
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zoom e controzoom
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martedì 15 maggio 2012
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la luminosità sulla violenza della storia
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Film che aveva tutte le possibilità di risultare pesante per la lentezza con la quale è stato scelto di far scorrere tempo e immagini, si risolve altresì in un equilibrio di passaggi e di tenute in scena che lo rendono estremamente gradevole e fluido.
La fluidità è quella che contraddistingue le elissi temporali del ricordo, con passaggi naturali dei movimenti di macchina che sorprendentemente porta in altro tempo nello stesso luogo senza particolari traumi anche se la scena è vista con gli occhi di un bambino mentre il racconto, voce over, è dell’adulto.
Altra modalità sostenuta per tutto il film la musica.
Brani musicali per strumenti diversi, ma dolci senza essere struggenti come il suono della corda sola di chitarra, potrebbe suscitare.
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Film che aveva tutte le possibilità di risultare pesante per la lentezza con la quale è stato scelto di far scorrere tempo e immagini, si risolve altresì in un equilibrio di passaggi e di tenute in scena che lo rendono estremamente gradevole e fluido.
La fluidità è quella che contraddistingue le elissi temporali del ricordo, con passaggi naturali dei movimenti di macchina che sorprendentemente porta in altro tempo nello stesso luogo senza particolari traumi anche se la scena è vista con gli occhi di un bambino mentre il racconto, voce over, è dell’adulto.
Altra modalità sostenuta per tutto il film la musica.
Brani musicali per strumenti diversi, ma dolci senza essere struggenti come il suono della corda sola di chitarra, potrebbe suscitare., accompagnano scene diverse che rimangono racchiuse in un preciso ambito emotivo, accompagnando il racconto.
Molto bella e curata la fotografia, le inquadrature precise, non ossessivamente spinte ma sufficientemente portati i primissimi piani per sentirne la vicinanza. E poi gli azzardati e molto costruiti controluce. Con la particolarità di una notevole sovraesposizione, l’atmosfera per tutto il film è estremamente luminosa, non c’è mai in essa un momento di pesante drammaticità, nemmeno negli eventi più cruenti; la prigione: sulle pareti c’è l’umidità, la muffa, i corpi dei prigionieri sono ammassati, ma è quell’ammassarsi, quell’essere scossi dalla luce di una torcia che fruga tra loro come fossero fagotti, sono quegli sguardi che ridanno il dramma, non la mancanza della luce. A volte pare che il paesaggio sia virato, ma l’effetto è solamente della desaturazione del colore; altre lo scenario dietro al soggetto è particolarmente sfocato, ma il bianco accecante delle architetture fa più propendere, appunto, per la scelta della sovraesposizione.
Lo studio fotografico si completa con l’orizzontalità delle inquadrature, che sembrano evitare accuratamente ogni elemento che crei prospettive accentuate.
Pare che il tempo sia scandito con modalità contenute in ritmi aurei e senza sobbalzi violenti. Eppure la violenza c’è, è contenuta in questa storia fatta di ambiente difficile per la convivenza di due etnie; violenza di modalità di vita modesta al limite della miseria più bieca per cui un bimbo resta scalzo per risparmiare le scarpe; violenza della nonna-matrona terribile fisicamente e caratterialmente; violenza dei bambini che sono generosi in quell’età solo nella letteratura ottocentesca; violenza per la storia del reale che qui viene ricordata.
Tutta questa violenza trova una sedimentazione nel racconto fatto senza partecipazione animosa della voce over e solo così può essere tramandata senza conservare l’animosità della vendetta.
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