Raccontare Inception è come raccontare un sogno: più ci provi e più i contorni si fanno sfuggenti, nebbiosi, inafferrabili. Un arduo incedere nel complesso film di Christopher Nolan, senza termini di paragone per il genio pionieristico che vi opera, che sa scoprire per primo cose mai viste.
Una meticolosa preparazione all’impresa, che lo stesso regista ha affrontato in un decennio di scrittura e riscrittura, trovando in Memento (girato nel 2000) un riscaldamento per la lunga corsa di Inception. Allora fu la perdita della memoria a breve termine a far da motore al compulsivo montaggio di una storia che rifletteva gli angoli e i vicoli ciechi del labirinto nascosto dentro ciascuno di noi; dieci anni dopo è ancora la memoria e quel che vi rimane impresso con le idee che elaboriamo ad attrarre Nolan e noi spettatori dentro gli enigmatici meccanismi della mente.
E che cosa è in grado di rivelarci quei segreti percorsi di cui ognuno è custode? Il sogno. Dentro ai sogni (tecnologicamente condivisi) penetriamo avvolti da una martellante azione da crime movie e dalla schiacciante coinvolgente colonna sonora di Hans Zimmer. Ci precipitiamo nei sogni degli altri grazie all’estrattore Dominic Cobb (Leonardo DiCaprio) e al suo team di professionisti scelti, capaci di estrarre dalle menti un’idea: l’amico di lunga data Arthur (Joseph Gordon-Levitt), il truffaldino mago dei travestimenti Eames (Tom Hardy), il miglior chimico in circolazione Yusuf (Dileep Rao) e la nuova recluta, la giovane studentessa Ariadne (Ellen Page), brillante architetto in grado di dar vita a spazi creativi inauditi perché si realizzi la fantascientifica impresa di Cobb.
Contattato dal magnate giapponese Saito (Ken Watanabe), Cobb non dovrà però estrarre un’idea, bensì impiantarne una nella mente di Robert Fischer Jr. (Cillian Murphy) figlio del potente (e morente) Maurice Fischer (Pete Postlethwaite): dissolvere il suo impero industriale. Così, ci muoviamo con Cobb e la sua squadra dentro realtà che possono anche non esserlo, vivendo presenti che possono soltanto essere sognati, sognando mondi che giacciono nella soffitta dimenticata di un subconscio nel quale rischiamo di perderci com’è capitato a Mal (Marion Cotillard), moglie di Cobb e fantasma costretto a vagare nel limbo di universi schizofrenici.
Saltiamo così da un livello all’altro in quel labirinto che Christopher Nolan ha immaginato per noi, smarriti dentro a luoghi nei quali i confini naturali si ripiegano su se stessi come scatole di Micro Machines, confondendo il sopra con il sotto, stupendo le nostre prospettive, le nostre percezioni, portandoci dentro stanze pronte a sgretolarsi come sogni che si disfano alle prime luci dell’alba, mentre noi siamo lì cercando di afferrarne gli ultimi lembi, provando a fissare su un pezzo di carta un nome, almeno un nome che possa farci ricordare quel tempo sospeso.
Un’isola di certezza perché possiamo agganciarci all’origine (Inception), mentre saltiamo dentro livelli di sogno sempre più profondi, dilatando il tempo ad ogni discesa, aspettando l’eco di Je ne regrette rien a salvarci, cercando di capire se davvero siamo salvi grazie alla prova fisica di un totem: un oggetto per noi particolare che ci dica se la gravità è ancora la legge che ci governa o se siamo intrappolati nel sogno. Intrappolati nel labirinto di un tempo che Nolan ha ricreato per esplorare le sconosciute alchimie della psiche umana. Di un tempo che nel giro di una trottola può dirci se siamo vivi o perduti.
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