Oro rosso

Un film di Jafar Panahi. Con Hossain Emadeddin, Kamyar Sheisi, Azita Rayeji, Shahram Vaziri, Ehsan Amani.
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Titolo originale Talaye sorkh. Drammatico, durata 95 min. - Iran 2003. MYMONETRO Oro rosso * * * 1/2 - valutazione media: 3,84 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Un colpo di pistola. un altro, due cadaveri. Fuori, Teheran. Dentro, una tragedia dell’esclusione e della follia. E, improvvisamente, l’immagine del cinema iraniano cambia. Non più le storie di bambini. Non più le poetiche parabole di Kiarostami o la cronaca e la storia rivisitate da Makhmalbaf alla sua maniera elegante ed estetizzante. E nemmeno il cupo inferno della condizione femminile rappresentato come un cerchio che si stringe implacabile. Ma una storia di oggi, una realtà sociale come non ci era mai stata raccontata, un noir vero, un Iran che il regime non vuole che sia mostrato.
Da quando è stato presentato lo scorso anno a Cannes, Crimson Gold (questo il titolo internazionale del film, che in Italia è diventato Oro rosso) ha portato in giro per il mondo un ritratto della società iraniana che ha sorpreso e colpito gli spettatori per la sua durezza. Quanto alla durezza non c’è da stupirsi. Jafar Panahi, che ha vinto il Leone d’oro a Venezia nel 2000 con Il cerchio (le storie intrecciate di alcune detenute uscite da un carcere di Teheran), si era già cimentato con una dura critica al regime iraniano. Anche se al suo attivo ha pure la visione poetica della forza del desiderio come l’ha espressa in II palloncino bianco, dove una ragazzina mette in moto un intero quartiere della città per conquistare II pesciolino rosso che tanto vuole, dimostrando con ciò il pugnace temperamento delle donne iraniane.
Ma in Crimson Gold il ritratto, che viene disegnato attraverso la storia di un fattorino, un uomo strano, mentalmente ritardato, che consegna le pizze e ogni giorno attraversa in lungo e in largo sul suo scooter l’immensa città di Teheran, è ancora più preciso, senza metafore, sociologicamente crudele. E il ritratto di una società a cui la «rivoluzione» non ha portato la giustizia e l’equità che le rivoluzioni dovrebbero portare, in cui il divario tra i ricchi e i poveri è enorme e terrificante, in cui le divisioni sociali sono immense, in cui il moralismo dominante impone prezzi drammatici.
Non c’è da stupirsi se, come racconta, Panahi per fare il suo film ha Incontrato difficoltà immense. Che cosa possono avere trovato le autorità iraniane di così disturbante nel film che lui ha diretto e II suo maestro Abbas Kiarostami ha scritto? Quello che è certo è che a film finito a Panahi è stato chiesto di eliminare o accorciare un buon numero di scene, tra cui quelle che riguardano il comportamento della polizia di Teheran quando interviene contro i ragazzi che partecipano a una festa considerata troppo «hat» in un quartiere bene della città, e persino un duro commento su una marca di sigarette, che deve essere stato scambiato per una critica in codice al regime. E dopo che lo scorso anno il regista ha portato il suo film a Cannes - con quello che è stato considerato dalle autorità un atto di sfida - Panahi è stato arrestato ben due volte con pretesti vari.
Jafar Panahi, che si definisce un regista sociale e non un regista politico (ma è sicuramente «sociale» nel suo essere politico), ha cominciato la sua carriera come aiuto di Abbas Kiarostami, il più celebre e il più grande dei registi iraniani, che con i suoi film ha sempre lasciato il segno. E non si può dire che li realizzi all’insegna della comodità.
II cerchio è stato girato in maniera quasi clandestina e ancora oggi è medito In Iran, perché la critica al sistema, per quanto elegantemente trattata, è assai dura. Per Crimson Gold - che la critica ha paragonato a Taxi Driver, per via del suo protagonista, così visibilmente disturbato, che, come Travis Bickle nel suo taxi, percorre la, città con il suo scooter, ma in cui ha visto anche qualcosa di L’enigma di Kaspar Hauser, per il ritratto pieno di pietas di una speciale follia - il problema che si è posto a Panahi è stata la scelta del suo interprete. Perché, sostiene il regista, c’è solo un possibile interprete per ogni personaggio. E il suo lo ha identificato, dopo una lunga ricerca, in Hussain Emadeddin, che nella vita è, come il suo personaggio, un venditore di pizze, ed è effettivamente schizofrenico.
È questa sua particolarità a dargli, sullo schermo, quell’aura di distanza, di sofferenza psicologica, quei silenzi, quella strana andatura, a fame l’umiliato e offeso che cerca la normalità e la dignità (e non la trova) nella apparentemente egualitaria ma in realtà stratificatissirna società iraniana. Anche se, ha raccontato ancora Panahi, la scelta dì Emadeddin ha portato molte difficoltà: due giorni dopo l’inizio delle riprese, Hussain Emadeddin ha cominciato a litigare con il resto della troupe, sostenendo che al suo interno c’erano parecchi nazisti, e che quei nazisti stavano tentando di impedire i suoi rapporti telepatici con dei bambini morti a cui lui dava voce...
Quanto alla città, dal ritratto che ne fa Panahi si scopre, per esempio, la difficoltà che hanno molti emigrati ricchi al loro ritorno in una società che non capiscono più, e quindi la solitudine che ne deriva. Come si vede in una scena che sarebbe esilarante se non fosse così triste, in cui un giovane uomo, che abita in un quartiere alto di Teheran (alto in tutti i sensi, visto che le zone più belle e più eleganti della città sono quelle collinose), trattiene il fattorino che gli porta la pizza e la divide con lui pur di riuscire a parlare con qualcuno.
Se i censori sono stati disturbati da questo personaggio, da questa Teheran, da questo Iran urbano e dalla tragedia che Panahi racconta, aprendo il film con il gesto finale e ripercorrendo le vicende che portano alla sua drammatica conclusione, Panahi non si lascia turbare, non accetta neanche di accedere al pensiero dell’autocensura. Ed è riuscito in un’impresa notevole: Crimson Gold ci parla di una Teheran non metaforica, non poetica, non fiabesca, non mitica: di un mondo reale. Il buon vecchio noir ha raggiunto ancora una volta il suo scopo.
Da Il Venerdì di Repubblica, 28 maggio 2004


di Irene Bignardi, 28 maggio 2004

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