Stigmate

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Un film di Rupert Wainwright. Con Patricia Arquette, Gabriel Byrne, Jonathan Pryce, Nia Long, Rade Serbedzija.
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Titolo originale Stigmata. Fantastico, durata 102 min. - USA 1999. MYMONETRO Stigmate * * - - - valutazione media: 2,38 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Denuncia colorata di metafisico. Valutazione 2 stelle su cinque

di no_data


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lunedì 23 dicembre 2013

 Parrucchiera atea, che conduce la vita nell'edonismo, riceve un'indiazione e diventa profeta sibillina e visionaria di un credo che dà molto fastidio alla Chiesa. 

Non è mai facile trattare tematiche simili. Specie senza ricadere nel banale, nel già detto, nella maniera o in blasfemia ricercata per attirare l'attenzione. E' un film che merita più di una parola.
Formula ricorrente dell'opera è la rielaborazione del versetto 77 del Vangelo di Tommaso, scritto considerato apocrifo dalla Chiesa: "Il regno di Dio è in te e attorno a te, non in edifici di legno e pietra. Spezza un pezzo di legno ed io sarò lì, alza una pietra e lì mi troverai". Silloge delle concezioni immanentista e agostiniana ("La natura è Dio nelle cose" Giordano Bruno; "La verità risiede nell'interiorità dell'uomo" Sant'Agostino), inno alla ricerca di Dio nella primordiale natura del mondo o nell'intima natura di se stessi, è un pericolo per l'istituzione della Chiesa, interessata a tutelare il rapporto del fedele con Dio tra le mura artificiali di edifici da cui deriva tutta la sua ricchezza. Da questo centro nevralgico della riflessione dottrinale di cui l'opera si fa latrice, si articolano le più svariate tematiche, tutte di matrice cristiana (quelle stesse che dal Medioevo in avanti hanno scatenato dibattiti che hanno coinvolto dottori della Chiesa, mandato al rogo uomini, causato scismi eresie e guerre). Ad esempio, è emblematica la contrapposizione tra libertà e predestinazione, tra volontà e necessità: la nostra protagonista è considerabile "eletta" da Dio, i suoi segni di elezione sono le stigmate (dal greco, "segni"), veri e propri "doni di Dio" che - come afferma - darebbe volentieri indietro, da buona donna edonista e materialista qual è. Il resto ha tutto il sapore di già visto: rapporto tra scenza e religione, monopolio della Chiesa nella conoscenza ("Il nome della Rosa"), ripercussione fisica della sofferenza spirituale, tema della castità, contrapposizione tra edonismo e contemptus mundi, e molto altro, trattato in taluni casi più che con dialettica con frivolezza da salotto.
Ma spostiamoci ora all'aspetto visivo: come comunicare allegorie e concetti filosofici facendoli passare attraverso i nostri occhi? Il regista non poteva scegliere di peggio: da buon pubblicitario, opta per un bombardamento esasperato di immagini in un caotico coacervo tra ieratico e profano. Certo, colpisce. Urta il nostro immaginario. Ma l'intensità espressiva diventa forzatura, l'aspetto emotivo prende a pugni la riflessione, la "pornografia" vince sull'utilizzo consapevole di simboli e allusioni. Pensiamo agli elementi topici dell'opera: l'acqua, il fuoco, il sangue. Il sangue è spesso immerso nell'acqua (suggestione che verrà riproposta in "Confessions", cambiando il solvente nel latte): il primo simboleggia il sacrificio, la seconda l'elemento vitale, insieme possono riferirsi a morte e resurrezione. Un forte diluvio segue le scene della crocifissione rivissute dalla protagonista, allegoria dell'universale purificazione dell'umanità. Il fuoco è simbolo della passione di Cristo. Simbologia semplice, ma utilizzata in modo ridondante e tautologico. Il sangue schizza, l'acqua inumidisce in modo costante l'atmosfera, il fuoco avvampa fino a bruciare povere madonnine. Senza senso e senza bisogno. Il risultato è un "The Ring" pseudo-intellettuale, al profumino di fiori di santo. Croce e delizia di quest'opera è la sua ricerca di plusvalenza artistica: impatto nell'attirare, suggestività nel comunicare, moderazione nel far riflettere e impegno nel denunciare. La somma di questi elementi eterogenei ha come risultato uno zibaldone composito e artificioso, che commistiona in modo disordinato temi morali, scene horror, denuncia sociale e, chi più ne ha più ne metta, anche un amore, che di lirico e passionale ha ben poco. L'Arquette in ruolo nero non è assolutamente confrontabile con quella che è emersa in "Strade Perdute".
Nel voler, al tempo stesso, spiccare il volo nel trattare il metafisico ed entrare in profondità nelle più basse agonie dell'animo umano, si resta in superficie.

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