Flirt (New York-Berlino-Tokyo)

   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

“Sassi/ che il mare ha consumato, / sono le mie parole / d’amore per te,” cantava Gino Paoli quasi quarant’anni fa. Dubito che Hal Hartley - uno dei registi più interessanti della scena americana, ma pronto a scivolare sui piano inclinato dell’intellettualismo verso pasticciacci come il suo recente Amateur - dubito, dicevo, che Hal Hartley conosca la canzone (o la lirica di Rilke che comincia “Immer Wieder”, sempre di nuovo, e che parla della stessa cosa...). Ma con Flirt Hartley racconta lo stesso sentimento: le parole e le situazioni d’amore sono consunte - oppure, più ottimisticamente, sono talmente uguali da costituire un esperanto di gesti, azioni, risposte.
Spiazzante ed eccentrico, Flirt è un esercizio strutturale intelligente e non pretestuoso - anche se la sua struttura tripartita è nata per caso. Il primo dei tre episodi di cui si compone il film è stato girato da Hartley mentre preparava Amateur. Il resto è nato a Cannes, dove il produttore Ted Hope, amico di Hartley, ha trovato un complice tedesco e uno giapponese. E anziché sviluppare con i soldi conquistati la storia nuovayorkese del primo episodio, Hartley ha scelto la strada originale e rischiosa della reiterazione: lo stesso copione - di parole, di sentimenti, di relazioni - viene ripetuto dopo New York a Berlino e a Tokyo (con piccola e perfetta sorpresa finale).
Hartley - che nel far questo se non si ricorda di Gino Paoli deve avere sicuramente pensato a Calvino o a Resnais - ristabilisce la preminenza del regista come narratore, come inventore di storie, come demiurgo onnisciente sui suoi personaggi. La storia è sempre la stessa, con minuscole varianti - come la medesima melodia eseguita con strumenti diversi. Due innamorati stanno per lasciarsi perché lei (o lui) parte per un breve periodo. Lei (o lui) chiede all’altro quanto siano serie le sue intenzioni. E l’altro chiede tempo - un’ora e mezza - per riflettere. In quell’ora e mezza incontra un’altra persona, si fa tentare da un’altra fantasia, viene più o meno casualmente ferito e medicato. Per poi correre all’appuntamento mancato. A New York gli innamorati sono Bill e Emily, che sta per partire per Parigi. A Berlino sono un ragazzo di colore e il suo amante, un mercante d’arte più vecchio di lui. A Tokyo... be’, a Tokyo le cose si complicano un po’, complici i incomprensione linguistica e i rituali della danza Butoh, intorno a cui ruota il gruppo dei protagonisti, e torna ad affacciarsi prepotente il personaggio invisibile dell’ “autore”.
Le minime variazioni di un copione che scopriamo presto di conoscere a memoria si adattano a latitudini e longitudini sentimentali e sessuali diverse, e il divertimento approda alla inevitabile conclusione della universalità e inevitabilità della commedia sentimentale. Così che quello di Hal Hartley in Flirt (“casta relazione amorosa generalmente priva di sentimenti profondi”) è certo un gioco molto cerebrale, e come i flirt, appunto, “privo di sentimenti profondi”: ma con un’acuta percezione della coazione a ripetere amorosa, e con il piacere (provato e dato) di smascherare col sorriso l’amorosa menzogna.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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