Lanterne rosse |
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Un film di Zhang Yimou.
Con Li Gong, He Caifei, Cao Cuifeng, Jin Shuyuan, Jingwu Ma.
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Titolo originale Dahong Denglong Gaogao Gua.
Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 125 min.
- Cina 1991.
MYMONETRO
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La frustrazione nel cinema asiatico post-moderno
di frenky 90Feedback: 1018 | altri commenti e recensioni di frenky 90 |
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giovedì 29 marzo 2012 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
L'assurda vita di una concubina nella Cina degli anni 20, raccontata con dolore simmetrico e preciso dalla regia di Zhang Yimou, futuro fenomeno extra-asiatico come Ang Lee, la cui patria è la stessa di una delle tre coproduzioni (Taiwan; Cina e Hong Kong le altre due). L'anno di uscita del film è il 1991 e purtroppo, viene da dire, nulla di più congruo allo spirito asiatico poteva essere partorito dal romanzo di Su Tong “Mogli e concubine” trasposto con barbaria giustificata dai tempi fortunatamente cambiati ai giorni nostri seppur con problematiche di natura differente. A far paura più della “stanza della morte”, più volte paventata nel film, è l'atmosfera asciutta e sacrale, i volti spenti che abitano con rassegnazione il microcosmo austero del palazzo Chen e l'inquieta colonna sonora dei picchettii degli strumenti da massaggio e dell'incalzante ritmo a percussioni che scandisce l'accensione delle fantomatiche e fatali lanterne rosso acceso. Proprio su di esse occorre soffermarsi per sottolineare il genio autoriale che le pone in essere dal nulla, data la totale inesistenza di tale tradizione nella cultura cinese, e che le assurge a protagoniste dell'opera dandone il titolo poiché sono queste stesse a muovere gli equilibri, portando l'orgoglio nelle stanze in cui sono accese e l'invidia in quelle in cui non vi entrano neppure. Il femminismo quantomai giusto e viscerale della cinematografia emerge dalla scelta di particolari inquadrature da parte della direzione di un Yimou registicamente puntuale in maniera impeccabile, come quando piazza la macchina da presa in faccia alla sua eroina nello shot di apertura e ripete la medesima operazione verso il finale del film con la sposina che ne ha preso il posto. Altro asso nella manica del director di Sian è la scelta di non mostrare praticamente mai il volto di padron Chen, solo un volta velato dall'immancabile rosso trasparente delle coperte del talamo nuziale e per il resto inquadrato solo da lontano. Scelta che aiuta non poco a conferire ancora più timore reverenziale alla sua figura ma anche a spostare l'attenzione da lui, pur senza togliergli l'indiscutibile status di deus ex machina. Al disopra di tutto è solo la sua voce che echeggia sinistra e calma tra le mura e nel cortile del palazzo, tanto per cambiare resa splendidamente dal doppiaggio italiano. “Dry” è per l'appunto come prima accennavo anche la recitazione di Gong Li nella parte della maledetta “quarta signora”, emotivamente fragile e psichicamente instabile, giustificata dal piccolo inferno in cui vive. L'attrice naturalizzata singaporiana, anche lei futura stella ad Hollywood e Cannes, opera una scelta intimista donando al personaggio compostezza anche nel momento della pazzia e suscitando nello spettatore empatia e compassione. Il film riesce nel complesso ad essere di denuncia senza gridare allo “unitevi sorelle”, a commuovere senza strappare lacrime, in definitiva a sbraitare senza alzare troppo la voce.
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