La barbe bleue

Anni Cinquanta. Catherine ama molto la fiaba di Barbablù e si diverte a spaventare con la sua narrazione la sorella maggiore Marie-Anne la quale regolarmente si mette a piangere. Ma è la stessa Catherine che si vede come protagonista della fiaba. Si identifica infatti con Marie-Catherine, l'ultima sposa di Barbablù, quella che sfuggirà al destino di morte delle mogli che l'hanno preceduta. Lei è la principessa vergine e l'orco non può pensare di ucciderla.
Catherine Breillat, da sempre in esplorazione dei lati più nascosti della sessualità, questa volta dà direttamente il suo nome alla protagonista. Perché le tre sintetiche pagine di Perrault hanno sin da piccola stimolato la sua fantasia spingendola ad atterrire la sorella maggiore con la loro indubitabilmente sempre uguale narrazione. Ecco allora che la vicenda dell'oscuro uxoricida prende corpo come occasione di controllo dei propri fantasmi in formazione. Per una volta Breillat rinuncia al proposito di voler choccare gli spettatori per cercare nuove strade più allusive ma proprio per questo, in un mondo in cui l'esibizione domina, più efficaci.
La Catherine narratrice diventa protagonista della vicenda potendo così risultare l'unica che riesce a sopravvivere al Male incarnato dal maschio che vuole possedere, per poi sopprimerla, la femminilità che si incarna nelle sue conquiste. È un percorso di autoaffermazione nei confronti della dominazione maschilista che ha inizio sin dalla più tenera infanzia.
La regista, individuando nelle fiabe gli archetipi narrativi alla base di questo processo, sembra aderire alla conservazione. Chi legge più le fiabe nell'era dei videogiochi? Ma c'è conservazione e conservazione. Quella a cui, in questa occasione, aderisce Breillat è di quelle illuminate. 